Col passare del tempo, e soprattutto con l’innalzarsi del livello di vita e del benessere economico, il clima sociale e politico è andato sempre più trasformandosi. Innanzitutto il raggiungimento di certi benefici economici ha portato i diversi ceti sociali a considerarli e a trasformarli in privilegi, ossia a difenderli e ad aumentarli nei confronti degli altri. Le grandi lotte per la giustizia sociale si sono così frammentate sempre più fino a diventare rivendicazioni di camarille locali. All’interno dei partiti si sono formate le correnti e moltiplicati, nel tempo, i gruppi di potere a difesa di interessi sempre più particolari. Dai pochi e grandi partiti organismo si è passati a un sistema composito di strutture piramidali in cui l’individuo rivendicava il proprio ruolo e il proprio potere. Si sono in tal modo moltiplicati i partiti personali con programmi specifici sempre più legati a situazioni particolari e contingenti, il cui scopo restava soltanto quello di riuscire ad avere qualcosa per sé. La politica, che dovrebbe essere scienza o, almeno, dottrina della polis è scaduta a lotta per il potere, alla ricerca e alla soddisfazione dei propri interessi, in un processo individualistico sempre più accentuato.
Il superamento dell’egoismo individualistico, con le conseguenti aggressività e violenza, è possibile, anche se mai in maniera definitiva e totale, attraverso lo sviluppo della cultura. La cultura, sia ben chiaro, non si riduce e non è l’informazione, che è uno strumento spesso al servizio dei propri interessi e del proprio avere e quindi di violenza sull’altro, ma è conquista graduale del senso di appartenenza ad una dimensione più grande della propria finitezza spaziale e temporale. E’ la valorizzazione e l’espansione di quel senso di comunità e di compartecipazione attiva che è possibile trovare, ad esempio, nelle équipes scientifiche, come quella della Nasa, quando alla realizzazione di un progetto interplanetario, tutti si abbracciano, gioiscono, si congratulano vicendevolmente autori dell’impresa. E’ un po’ quello che avviene negli stadi, quando gli spettatori si identificano con la squadra e la squadra con gli spettatori; abbiamo vinto, noi, tutti insieme, in un’unica entità.
La cultura del dare e del dovere, soprattutto oggi, attenua e riduce di molto la violenza, perché inibisce l’aggressività naturale e congenita dell’uomo. Il bambino, se protetto e incoraggiato, e quindi sollecitato a far prova di sé, è gratificato dalle sue conquiste. L’adulto è il bambino della società e cresce e moltiplica le sue capacità operando con gli altri. L’unione fa la forza e ciò che può fare il gruppo è molto di più di quello che può realizzare uno solo. Quanto più importante è il risultato conseguito tanto più rilevante è la gratificazione che ne deriva a cui si accompagna la spinta a proseguire con maggiore impegno.
Il ricevere è piacevole, ma il dare è gratificante e stimolante non soltanto a dare di più, ma anche a riconoscere e ad apprezzare il contributo degli altri, senza i quali non sarebbe stato possibile raggiungere il traguardo. E’ il processo di socializzazione che può proiettarsi dal ristretto gruppo familiare all’intera umanità.
L’uomo non nasce sociale, lo diventa proprio nella società che riesce a rendere equivalenti ai diritti naturali i doveri sociali, in una società che dà, ma che chiede anche di avere, che impegna il cittadino a dare il suo contributo attivo e fattivo al suo progresso.
Il neonato cuculo getta fuori dal nido i legittimi occupanti la cui morte consente la sua vita, così come avviene per il più debole di una cucciolata troppo numerosa: è una legge naturale, la legge della sopravvivenza che nell’uomo corrisponde alla rivendicazione dei diritti naturali. L’uomo primitivo, raffigurato dal bestione, munito di clava, che trascina la donna per i capelli, usa la sua forza fisica sul più debole per ritagliarsi il suo spazio vitale, per la realizzazione e l’affermazione di sé. La rivendicazione naturale dei diritti distingue e contrappone ogni individuo a tutti gli altri individui; lo chiude e lo limita in sé: solo il dovere riesce a rendere l’uomo sociale, dandogli il senso, la consapevolezza e la forza della comunità, ossia della sua appartenenza a una dimensione corale. Uscendo da sé assume in sé gli altri, per cui diventa suo il contributo altrui.
Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui… è nato il dovere che è la forza di coesione della comunità. L’unione fa la forza, e la forza del gruppo diventa la forza del singolo che si identifica con tutti gli altri. Chi possiede si distingue da ciò che possiede; chi è accoglie in sé la realtà degli altri che concorrono a costituire il suo essere.
(continua)
Vittorio Pratola
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