1° puntata
Uno dei fondamenti della democrazia moderna è la violenza, perché essa nasce con le Rivoluzioni Inglese,del milleseicento, e Francese, del secolo successivo e continua nel novecento con le lotte del proletariato contro la Borghesia capitalistica, nelle quali il contributo del popolo è soltanto strumentale.
Nelle rivoluzioni, infatti, le masse sono soltanto uno strumento di cui le classi intermedie si servono per la conquista del potere. Si comincia a parlare di Popolo, ma in effetti è soltanto un modo formale e illusorio per motivare delle forze di cui solo i grandi gruppi di uomini possono disporre.
Le successive lotte proletarie del novecento vedono emergere dalle masse una componente consistente del progresso economico, la classe operaia, ma è sempre una parte del cosiddetto Popolo che resta forza cieca e violenta da utiilizzare al momento opportuno.
Era una violenza orientata in cui l’interesse comune sublimava l’interesse privato e che, in qualche modo, coinvolgeva e convinceva anche la media borghesia. Essa era illuminata dall’ideale della libertà individuale e della fratellanza e rendeva sociale il singolo facendolo sentire parte importante e indispensabile di un’entità superiore: la Società. I Partiti e le organizzazioni sindacali contribuivano a sciogliere l’egoismo individuale nel perseguimento del Bene comune, nell’anonimato dei programmi rivendicati per la collettività e gli esponenti dei partiti non apparivano mai come protagonisti o come leaders, ma come anonimi e disinteressati operatori al servizio della società, esecutori di un Ordine sociale a cui essi stessi obbedivano.
Il venir meno della coralità sociale non è iniziato nelle masse sociali, ma proprio dalla politica e dal sindacalismo. L’evoluzione sociale, che si è perfezionata nella seconda metà del secolo scorso, ha portato ad un appiattimento delle classi sociali e ad una massificazione sempre più consistente che ha tolto, ai Sindacati prima e alla politica dopo, la giustificazione dei loro programmi. Scomparso il proletariato, i Sindacati, che si sono sempre e soltanto interessati dei lavoratori dell’industria, hanno cercato soltanto di ritagliarsi un pezzo di potere politico, inseguendo rivendicazioni salariali sempre più settoriali e spesso anche antisociali. Altrettanto i partiti hanno ridotto sempre più, fino ad eliminarlo del tutto, quel carattere di impersonalità e di super individualità e soprattutto di imparzialità nei confronti delle classi e dei bisogni dei cittadini.
Gradualmente, ma sempre più intensamente, i partiti sono diventati terreno di scontro di singoli per la conquista del potere, organizzazioni verticistiche in cui le linee guida sono dettate dal capo ed eseguite pedissequamente e obbligatoriamente dai gregari, pena l’esclusione dal banchetto. Non c’è un programma; c’è il Capo e lo stesso nome del partito è il Capo. Ogni gruppo di potere diventa un partito ed ogni partito è un coacervo di sottogruppi di potere, tra cui continua la lotta per acquisire un potere maggiore,
Ogni azione politica si riduce ad una continua polemica partitica su problemi sempre più particolari e contingenti, occasionali ed estranei alla politica stessa. Aspre discussioni polemiche nascono perfino su occasionali espressioni verbali o su comportamenti formali di anonimi esponenti di partito. Sono diatribe violente e continue che nascondono il vuoto lasciato da motivazioni e programmazioni dei veri problemi sociali. Volta per volta, sempre in vista di confronti elettorali e possibilità di coagulare intorno a sé un maggior numero di sostenitori, i singoli capigruppo sventolano vessilli illusori di benefici che non sarà mai possibile erogare.
E la corruzione dilaga.
La violenza, nell’agone politico, diventa sempre più diffusa e virulenta. Non è una violenza soltanto verbale perché personalizzata e quindi non è scontro di principi, di convincimenti. Sono le persone come individui che vengono attaccate e l’antagonista diventa un nemico, un nemico da odiare, da distruggere, anche fisicamente, se fosse possibile. Basta pensare alle campagne per le elezioni politiche in America, dove non c’è alcun limite alla guerra tra i contendenti, a livello soprattutto personale.
Gli Stati Uniti discendono dai colonizzatori venuti dall’estero: uomini soli, avventurieri, disperati pronti a tutto, per i quali vigeva la legge del più forte. Mors tua, vita mea era di fatto la legge dei cowboys che con la pistola al fianco erano sempre pronti a sparare. Ma se guardiamo il livello a cui è scesa la politica della nostra democrazia, la differenza con quella americana non si nota. L’individualismo esasperato ha portato nella politica il culto della personalità e conseguentemente la lotta tra individui, una lotta continua, senza regole, dove niente è proibito. I leaders si combattono tra di loro e ognuno rivendica la paternità di successi particolari, perché il partito non ha altro programma oltre quello contingente, occasionale e prospettico che è quello del Capo.
La Politica, nel suo significato intrinseco, viene da Polis, la città, dove i cittadini sono artefici del bene comune, ma la politica è diventata appannaggio dei politicanti, di quegli individui che antepongono a tutto la propria affermazione e il proprio valore: io ho fatto, io ho detto, io… io…io.
Vittorio Pratola
Lascia un commento