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  • LA SECONDA REPUBBLICA

    3a puntata

    La Prima Repubblia è nata non dal popolo, né per volontà del popolo:  essa è nata grazie a degli ideali in cui i singoli individui hanno visto esaltati i propri legittimi interessi e per tali ideali a volte hanno anche rinnegato o meglio risolto ed annullato tali loro interessi.  Il popolo è stato uno strumento inconsapevole, una massa orientata e guidata dall’esterno, senza un’anima interiore, senza una volontà propria, ma la struttura che ne è derivata aveva una sua consistenza, un suo significato e in ultima istanza una sua unità ed un suo valore.

    La nuova Repubblica è nata per l’esaurimento fisiologico della prima. I partiti si erano tutti costituiti e si erano rafforzati perché avevano potuto ammantare ogni loro impegno, ogni loro programma, ogni più semplice decisione con il valore ideale del Bene comune da difendere e da salvare: la giustizia sociale, il valore dello spirito, il diritto alla proprietà erano come un sottofondo costante ed immutabile che dava consistenza e unitarietà alle azioni quotidiane e che infervorava gli animi rafforzando sempre più il convincimento interiore di essere nel giusto, indipendentemente da ciò che accadeva volta per volta, anzi a conferma della validità di esso.

    Con il trascorrere degli anni è venuto trasformandosi l’assetto sociale: le classi hanno mutato la loro fisionomia e la lotta di classe ha perduto il suo significato proprio perché si è verificato un progressivo appiattimento degli interessi dei singoli. Questi sono venuti ad annullarsi in una massa amorfa in cui non si sentivano più tutelati e in cui non avevano alcun punto di riferimento. Restavano soli con i propri particolari interessi che non potevano non scontrarsi con quelli altrettanto particolari di tutti gli altri.

    D’altra parte la società industrializzata ha favorito la corsa al consumismo e in tal modo ha annullato proprio quella lotta di classe che era maturata inizialmente nel suo seno. Livellando tutti gli individui, rendendo unico per tutti il fine immediato della conquista dei beni materiali, li ha per ciò stesso contrapposti ed isolati, in un’accentuazione parossistica dell’affermazione di sé di contro agli altri. L’individualismo esasperato ha fatto crollare tutti i miti, tutti gli ideali e l’uomo si è ritrovato solo, solo con sé stesso, oppresso dal senso del limite della propria individualità.

    I partiti politici che, pur nelle loro differenze di programma e di colorazione, erano di fatto, come si è detto, l’espressione di una situazione storica ben determinata, non potevano non subire contemporaneamente la situazione di crisi che investiva la dimensione sociale. Essi infatti avevano una radice unica e comune nella struttura socio-economica che si era definita lungo tutto il secolo diciannovesimo e che era giunta al suo pieno compimento nel ventesimo. Questa aveva fatto emergere e diventare trainanti il significato e il valore della socialità, dando cioè la certezza della realizzabilità dei principi di uguaglianza e di fratellanza di cui la Rivoluzione Francese si era fatta portabandiera.

    L’idea, fino ad allora concepibile soltanto per gli intellettuali, diveniva visibile, si potrebbe dire concreta, agli occhi delle masse, non soltanto perché si poteva guardare al Socialismo reale, ma soprattutto perché era vissuta momento per momento, era divenuta il pane quotidiano degli spiriti, era stata acquisita come verità che non aveva più bisogno di essere dimostrata. Inoltre aveva una portata operativa ed associativa, in quanto si poteva vedere realizzata soltanto a livello sociale, soltanto attraverso una trasformazione delle strutture economiche,  soltanto attraverso la compartecipazione spontanea o imposta di tutti.

    Era una portata che, ad esempio, non aveva avuto il messaggio cristiano il quale aveva soddisfatto il bisogno umano di avere un proprio spazio, esaltato all’infinito dal rapporto con la divinità, ma non aveva avuto lo stesso effetto socializzante. Ciascun uomo poteva rivendicare la dignità propria e di tutti gli altri senza necessariamente chiedere e pretendere il loro impegno e la loro partecipazione, in quanto il concetto di persona rendeva l’uomo partecipe di due dimensioni in cui quella divina poteva restare indipendente da quella terrena.

    V. Pratola

  • LA SECONDA REPUBBLICA

    2a puntata

    Da una parte si proponevano le forze proletarie che rivendicavano la giustizia sociale, attraverso l’attuazione di una società social-comunista. Esse si ispiravano alle realizzazioni del socialismo reale delle nazioni dell’est europeo, le quali apparivano capaci di eliminare le ingiustizie sociali, avendo superato, subito dopo una seconda terribile guerra mondiale, i difficili momenti delle trasformazioni iniziali ottenute per mezzo di una sanguinosa rivoluzione.

    Nell’ideale di giustizia e di uguaglianza sociale, che vivificava la loro azione, si coagulavano gli interessi di quelle masse che si erano sentite emarginate durante il ventennio fascista e, anche se con diversificazioni e sfaccettature spesso notevoli, potevano costituire un fronte abbastanza omogeneo e, in molte occasioni, capace di diventare esaltante per i singoli che si sentivano inseriti in una forte organizzazione in crescita inarrestabile.

    Dall’altra si contrapponevano le forze moderate, ispirate ai principi liberali e cattolici, che vedevano nel socialismo reale degli Stati dell’est la negazione della libertà individuale e dei valori dello spirito, nonché dei loro interessi particolari. Queste forze erano infatti unite fra loro soprattutto dalla paura che il movimento proletario potesse avere il sopravvento e privarli dei loro piccoli o grandi privilegi, come la proprietà della terra per i contadini, la proprietà della casa o le differenze sociali per i ceti medi.

    Di fatto le rivendicazioni individuali, perché di rivendicazioni individuali si trattava in realtà da una parte e dall’altra, accomunavano sia le classi proletarie, sia le altre classi, in riferimento ad un problema comune che investiva la conservazione o la trasformazione o, meglio, la distruzione di un sistema sociale. Per questo la Prima Repubblica è potuta nascere sul compromesso che da una parte salvava le rivendicazioni sociali, con il loro fondamentale principio di uguaglianza e di equità, e dall’altra ciò che contraddistingueva le prerogative individuali.

    Ciò tuttavia che ha cementato la Prima Repubblica è stata la presenza e la forza dei partiti.  Questi, già dal primo dopoguerra, si sono costituiti in strutture burocratiche fortemente e capillarmente organizzate che hanno rappresentato il punto di riferimento ed operativo delle masse: ogni individuo poteva sentirsi tutelato da un partito o da un altro, in quanto entità superindividuale, mai identificabile completamente con un esponente particolare o con un altro.  Inserito in una realtà organica in cui si riconosceva, egli si sentiva nello stesso tempo autonomo ed operativo, per cui andava oltre se stesso, si sentiva momento attivo di una realtà che lo esaltava.  In altri termini i partiti avavano fornito alle masse dei punti di riferimento per mezzo dei quali l’interesse individuale poteva acquisire una veste legale e una validità che andava al di là dell’orizzonte limitato del singolo. Questi non può sentirsi solo senza giungere alla propria negazione e senza sentirsi impotente: entrare a far parte, anche se in effetti soltanto psicologicamente, di un organismo più grande dà la possibilità di sentirsi forte e di diventare capace di combattere.  Il convincimento che il proprio interesse particolare non era la molla del proprio impegno, perché le proposte e il programma del partito perseguivano un bene che era al di là dei singoli, amalgamava le coscienze e le faceva sentire partecipi di valori universali che occorreva perseguire e attuare. La lotta politica pertanto diventava una crociata del bene contro il male e si ammantava di una sacralità che derivava dal convincimento di essere depositari della Verità che occorreva far trionfare.

    Basta pensare all’impegno di tante persone, non soltanto iscritte ai partiti ma anche semplici simpatizzanti, per rendersi conto di quale carisma abbiano goduto i partiti che, al di là delle loro traversie interne, al di là del susseguirsi e del rinnovarsi dei programmi legati alle contingenze temporali, al di là dei mutamenti dei vertici, sono riusciti a polarizzare le masse e ad orientarle verso comportamenti che sarebbe stato impossibile far assumere dai singoli in condizioni diverse.

    V. Pratola

  • LA SECONDA REPUBBLICA

    1° puntata

    Pubblico solo oggi, a puntate, per non stancare il lettore, poche riflessioni che scrissi per la cosiddetta fine della Prima Repubblica, perché ritengo che già d’allora erano evidenti i segni dell’involuzione politica degli Stati occidentali, cosiddetti democratici, o meglio dell’emergere e del concretizzarsi delle contraddizioni di una società democratica, fondata sulla ideologia liberale del settecento.  E’ un’involuzione che potrebbe, anche se nulla è prevedibile nella storia dell’uomo, portare alla morte delle moderne democrazie. Ogni prodotto umano porta in sé e con sé la contraddittorietà costitutiva dell’uomo stesso, come individuo, che è egoista naturalmente e che non può esserlo se non in una società.  In particolare lo Stato democratico, cosiddetto liberale, si fonda su principi che sono inconciliabili fra di loro e che nell’evoluzione sociale si negano vicendevolmente, come cercherò di evidenziare successivamente.

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    La seconda Repubblica italiana non è ancora effettivamente nata ed è già morta.

    Non si può parlare di Repubblica prescindendo da qualcosa che sia veramente “pubblico”, che sia comune se non a tutti i cittadini almeno ad una parte di essi.

    Se non c’è un ideale, un valore, un interesse al quale più individui possano sentirsi legati ed attraverso il quale possano sentirsi realizzati, l’unica soluzione è l’anarchia negativa, quella mancanza di potere che non significa massima esplicazione e affermazione di ciascuno nel complesso delle identità totalmente autonome l’una rispetto alle altre, ma che si esaurisce nella rivendicazione egoistica dell’ interesse particolare del momentaneo e contingente  utile individuale.

    La Prima Repubblica italiana ha avuto una sua valenza, una sua storia e un suo significato:  essa è nata e si è venuta costituendo intorno all’idea della lotta di classe e sul principio dell’uguaglianza e della libertà come processo di liberazione. Sulle ceneri e dalle ceneri di una esperienza negativa, negativa non tanto in sé quanto piuttosto perché sentita come tale dopo che ben poco sembrava essere cambiato in un ventennio, era venuto accentuandosi il bisogno e la volontà delle classi proletarie di giungere al potere e di gestirlo in modo più equo; esse erano sostenute e giustificate, nonché spronate, da quegli esponenti della pseudo-cultura italiana, che tanto spesso successivamente sono tornati alla ribalta della nostra storia, i quali, come i topi che lasciano la nave che affonda, si dichiaravano espressione di una sinistra democratica e riformista e si autoproclamavano avanguardie rivoluzionarie del nuovo momento storico, affiancandosi e quasi sempre sostituendosi successivamente a quei pochi, veri intellettuali che si erano battuti per il loro ideale di libertà.  I veri rappresentanti del proletariato e degli emarginati erano proprio costoro che nulla pretendevano di ricevere in cambio ma che quasi sempre avevano pagato di persona.

    Le trasformazioni economico-sociali dell’Italia avevano infatti permesso il costituirsi di forze contrapposte che, tuttavia, avevano dei punti di riferimento comuni grazie ai quali potevano far convergere i loro interessi perché potevano o credevano di riconoscersi in principi ideali che ad essi erano in qualche modo legati.

    C’era, in altri termini, un parametro al quale facevano riferimento tutti e che rappresentava perciò il connettivo unitario delle forze in campo.

    V. Pratola

  • 4.LA VIOLENA e la violenza sulle donne.

    L’ontogenesi ripercorre la strada della filogenesi e nell’età evolutiva dell’essere umano il ricorso alla violenza fisica è una naturale manifestazione.  Fra gli adolescenti, ma non manca nell’età precedente, è evidente e diffuso il rapporto conflittuale fondato sulla forza fisica e quindi sulla violenza.  Il più debole è destinato a soccombere se non interviene l’adulto.  L’adulto rappresenta il gruppo, o meglio la forza del gruppo che coincide con il dovere ossia con il rispetto dell’altro come momento essenziale della forza del gruppo che è la propria forza.  Quando viene a mancare questo dovere si formano le bande giovanili, così diffuse nella nostra società, fondate sulla violenza conflittuale decrescente nel gruppo, a danno di altri.

       Nella democrazia moderna, strutturata come le bande giovanili e quindi fondata sulla forza individuale contrapposta a quella degli altri, viene meno la forza corale del gruppo sociale.  In altri termini la forza si incrementa piramidalmente, mentre nella società umana la forza deve incrementarsi orizzontalmente. Ogni singolo individuo viene rigettato nella sua solitudine impotente e regredisce in comportamenti primordiali che non sono più in grado di procurargli quello spazio vitale di cui ha bisogno.  Chiuso in una dimensione sempre più ristretta si comporta come l’animale braccato e senza via di scampo.  Aggredisce e sfoga la sua impotenza e la sua rabbia su chi è più debole di lui e che gli è più vicino. 

       Le donne, insieme ai minori, sono nella cerchia fisica dell’individuo e diventano le vittime della sua reazione violenta.

       La violenza tuttavia non è soltanto di genere, anche se è attualmente prevalente quella maschile nella nostra società.  Ne sono un esempio le manifestazioni pseudo femministe ormai all’ordine del giorno, nelle piazze, nei cortei, nelle relazioni politiche e sociali, nel bullismo femminile, nelle aggressioni delle borseggiatrici e delle rapinatrici.   I fatti di cronaca ne sono l’indice:  mamme che uccidono i propri figli, maestre che terrorizzano i piccoli allievi, infermiere che torturano malati ed anziani, perfino conventi di suore di ordini religiosi, dove giovani extracomunitarie sono trattate come schiave.

       Il domani non si presenta roseo, ma la Speranza è l’ultima a morire, anche perché, dopo ogni grande tragedia, l’umanità ha dimostrato di sapersi riscattare, riscoprendo la sua pietas, di virgiliana memoria, nella luce di ideali che accomunano gli uomini.

       La storia ci insegna che non sono i potenti a rinunciare ai propri privilegi, né le masse di coloro che non hanno né diritti, né un minimo di forza per sopravvivere da soli.  Chi ha molto o ha tutto si barrica nel proprio avere, chiudendosi ad ogni rapporto con gli altri.  Chi non ha nulla e si identifica con il suo nulla è aggressivo e violento in ogni rapporto con gli altri.  Sia gli uni che gli altri riducono se stessi a ciò che hanno:  il loro essere è il loro avere.

       Per fortuna l’umanità non si esaurisce nelle due situazioni estreme di esistenza;  accanto ad esse coesistono uomini  che, anche se non hanno, riescono ad essere, perché operano, perché danno, incrementano la loro esistenza di una laboriosità che va oltre la loro dimensione finita.  E’ l’homo faber fortunae suae di rinascimentale memoria e che è fondamento della civiltà umana.

    ( Vittorio Pratola )

  • 3. LA VIOLENA e la violenza sulle donne.

       Col passare del tempo, e soprattutto con l’innalzarsi del livello di vita e del benessere economico, il clima sociale e politico è andato sempre più trasformandosi.  Innanzitutto il raggiungimento di certi benefici economici ha portato i diversi ceti sociali a considerarli e a trasformarli in privilegi, ossia a difenderli e ad aumentarli nei confronti degli altri.  Le grandi lotte per la giustizia sociale si sono così frammentate sempre più fino a diventare rivendicazioni di camarille locali.  All’interno dei partiti si sono formate le correnti e moltiplicati, nel tempo, i gruppi di potere a difesa di interessi sempre più particolari.  Dai pochi e grandi partiti organismo si è passati a un sistema composito di strutture piramidali in cui l’individuo rivendicava il proprio ruolo e il proprio potere.  Si sono in tal modo moltiplicati i partiti personali con programmi specifici sempre più legati a situazioni particolari e contingenti, il cui scopo restava soltanto quello di riuscire ad avere qualcosa per sé.  La politica, che dovrebbe essere scienza o, almeno, dottrina della polis è scaduta a lotta per il potere, alla ricerca e alla soddisfazione dei propri interessi, in un processo individualistico sempre più accentuato. 

       Il superamento dell’egoismo individualistico, con le conseguenti aggressività e violenza, è possibile, anche se mai in maniera definitiva e totale, attraverso lo sviluppo della cultura.  La cultura, sia ben chiaro, non si riduce e non è l’informazione, che è uno strumento spesso al servizio dei propri interessi e del proprio avere e quindi di violenza sull’altro, ma è conquista graduale del senso di appartenenza  ad una dimensione più grande della propria finitezza  spaziale e temporale.  E’ la valorizzazione e l’espansione di quel senso di comunità e di compartecipazione attiva  che è possibile trovare, ad esempio, nelle équipes scientifiche, come quella della Nasa, quando alla realizzazione di un progetto interplanetario, tutti si abbracciano, gioiscono, si congratulano vicendevolmente autori dell’impresa.  E’ un po’ quello che avviene negli stadi, quando gli spettatori si identificano con la squadra e la squadra con gli spettatori;  abbiamo vinto, noi, tutti insieme, in un’unica entità.

       La cultura del dare e del dovere, soprattutto oggi, attenua e riduce di molto la violenza, perché inibisce l’aggressività naturale e congenita dell’uomo.  Il bambino, se protetto e incoraggiato, e quindi sollecitato a  far prova di sé, è gratificato dalle sue conquiste.  L’adulto è il bambino della società e cresce e moltiplica le sue capacità operando con gli altri.  L’unione fa la forza e ciò che può fare il gruppo è molto di più di quello che può realizzare uno solo. Quanto più importante è il risultato conseguito tanto più rilevante è la gratificazione che ne deriva a cui si accompagna la spinta a proseguire con maggiore impegno.

     Il ricevere è piacevole, ma il dare è gratificante e stimolante non soltanto a dare di più, ma anche a riconoscere e ad apprezzare il contributo degli altri, senza i quali non sarebbe stato possibile raggiungere il traguardo.  E’ il processo di socializzazione che può proiettarsi dal ristretto gruppo familiare all’intera umanità.

       L’uomo non nasce sociale, lo diventa proprio nella società che riesce a rendere equivalenti ai diritti naturali i doveri sociali, in una società che dà, ma che chiede anche di avere, che impegna il cittadino a dare il suo contributo attivo e fattivo al suo progresso. 

      Il neonato cuculo getta fuori dal nido i legittimi occupanti la cui morte consente la sua vita, così come avviene per il più debole di una cucciolata troppo numerosa: è una legge naturale, la legge della sopravvivenza che nell’uomo corrisponde alla rivendicazione dei diritti naturali.  L’uomo primitivo, raffigurato dal bestione, munito di clava, che trascina la donna per i capelli, usa la sua forza fisica sul più debole per ritagliarsi il suo spazio vitale, per la realizzazione e l’affermazione di sé. La rivendicazione naturale dei diritti distingue e  contrappone ogni individuo a tutti gli altri individui; lo chiude e lo limita in sé: solo il dovere riesce a rendere l’uomo sociale, dandogli il senso, la consapevolezza e la forza della comunità, ossia della sua appartenenza a una dimensione corale.  Uscendo da sé assume in sé gli altri, per cui diventa suo il contributo altrui.

      Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui… è nato il dovere che è la forza di coesione della comunità.  L’unione fa la forza, e la forza del gruppo diventa la forza del singolo che si identifica con tutti gli altri. Chi possiede si distingue da ciò che possiede;  chi è accoglie in sé la realtà degli altri che concorrono a costituire il suo essere.

    (continua)

    Vittorio Pratola

  • 2. LA VIOLENZA e la violenza sulle donne.

    Una prima grande e grave conseguenza a livello socio-politico si è avuta sul piano dell’educazione: il sei politico nelle scuole medie e il ventisette politico nelle università non si possono negare a nessuno, perché sono un diritto, così come un diploma che spetta a tutti e che se non è concesso dallo Stato si può e si deve prendere attraverso compiacenti scuole private.  A livello individuale è aumentata la fragilità dei giovani, incapaci di affrontare le difficoltà della vita, le situazioni relazionali ed il confronto democratico:  la fragilità diventa solitudine, la solitudine debolezza, la debolezza aggressività e violenza.

       Sul piano sociale, la teoria dell’avere diventa negazione del dare:  chi ha ricevuto non deve più dare perché ormai è suo tutto quello che ha ottenuto:  è l’affermazione dell’egoismo e la negazione della socialità.  Anche in tal modo l’individuo viene rigettato nella solitudine della sua individualità e quindi nella sua debolezza che fa riemergere l’aggressività e la violenza.   E su chi si scarica questa violenza?  Su chi è più debole. E l’un l’altro si rode di quei che un muro ed una fossa serra.  Ahi serva Italia di dolore ostello:  la storia ed il passato non hanno insegnato nulla e le false conquiste economico-sociali hanno rigettato l’individuo, nella sua debolezza impotente, alla ferocia bestiale che diventa l’ultima ed unica forma di difesa.  L’animale braccato e senza possibilità di fuga non può far altro che aggredire.

       Sempre più la società moderna va esasperando l’individualismo che si configura come solipsismo che genera e rende patologica la paura di perdere quello che si considera un proprio avere: l’individuo nella massa è sempre più solo, sempre più alla ricerca di un suo rifugio dove chiudersi in se stesso e proteggere accanitamente, fino alla distruzione, i propri beni, cose e persone. Basta pensare allo sciamare dalle fabbriche e dagli uffici, agli ingorghi delle auto in cui ciascuno, chiuso nel suo guscio metallico, cerca di uscire dalla massa, nell’ossessiva ricerca della propria solitudine, per rendersi conto di quanto oggi la solitudine regni nella nostra società. Basta pensare agli enormi edifici delle periferie o ai condomini delle città, dove ognuno vive nel suo guscio e non conosce neanche i suoi vicini.  Basta pensare all’indifferenza, sempre più diffusa di ciò che, nelle strade, capita ad altre persone:  se subiscono un’aggressione o aggrediscono, c’è chi resta a guardare, indifferente ed estraneo e chi non vuole vedere neanche e va oltre;  non è un mio problema e non mi interessa: … e l’un l’altro si rode di quei che un muro ed un fossa serra…. (ahi serva Italia di dolore ostello) la storia non ci ha insegnato nulla e il passato resta uguale nel presente. 

       I grandi ideali, che pure ci sono stati sempre nel passato come lo sono ancor oggi, anche se molto poco incidenti, non riescono a sollecitare quel naturale bisogno dell’uomo di uscire dal proprio egoismo individualistico, per assumere una dimensione in cui si senta momento attivo ed essenziale di un organismo superiore. Far parte di una comunità, che valorizzi l’apporto individuale e dia la consapevolezza dell’indispensabilità dell’altro, genera il rispetto dell’altro e favorisce l’esaltazione dell’essere.

         Il diffondersi della corsa all’avere nella società, trova il suo corrispettivo e la sua forza espansiva nella corsa al potere politico, nella struttura della democrazia, perché potere è uguale ad avere.  Basta pensare all’involuzione sempre più accentuata che si è determinata nell’impostazione dell’attività dei partiti. 

       I grandi partiti che si sono affermati nel secolo scorso fondavano la loro attività e i loro programmi su ideali superindividuali che riuscivano a coagulare gli interessi particolari, in funzione della realizzazione di un bene comune ed impegnavano i singoli a partecipare attivamente e a dare il loro contributo al progresso della società.  Era la lotta per la conquista dei diritti fondamentali del cittadino che si sentiva anche come dovere da compiere a vantaggio anche degli altri, e quindi come compito sociale.

    I programmi dei partiti diventavano così la motivazione e la giustificazione comune a tutti coloro che facevano parte del movimento, dai dirigenti ai simpatizzanti,  e che dava a ciascuno la convinzione di essere momento essenziale di un’entità superiore.  L’individuo usciva dall’ambito ristretto ed egoistico del proprio avere e valorizzava il suo essere nel dare il proprio contributo alla crescita sociale.

    ( continua)

    Vittorio Pratola

  • 1.LA VIOLENZA e la violenza sulle donne.

      Il dibattito sui femminicidi, oggi, si è particolarmente accentuato ed infervorato acquistando quella virulenza che scoppia quando un avvenimento di cronaca colpisce significativamente l’opinione pubblica e legittima i mass media e le forze politiche che possono approfittare di una cassa di risonanza per far sentire la propria voce e rivendicare la propria posizione e la propria condanna, nonché la propria integrità morale.

       Come tutto ciò che suscita una forte emozione nelle masse, comunque, anche questa volta il silenzio prevarrà sulla babele di voci che rivendicano rimedi, pontificano sulle cause e intessono discorsi psicologici e sociologici e pedagogici che lasciano il tempo che trovano.

       La violenza sulle donne è soltanto un aspetto, certamente significativo ma parziale e circoscritto, di una VIOLENZA che è costitutiva della società, soprattutto della nostra società.

       Cominciamo dai nostri governanti.  A parte le indecorose risse parlamentari, che vedono i rappresentanti politici, di tutti i livelli, da quelli comunali ai deputati e senatori, azzuffarsi fisicamente in una indecorosa maniera, ma la violenza verbale domina sempre l’agone politico e si sa, come recita un antico adagio, che la lingua non ha l’osso ma rompe il dosso.   Le parole sono il vento che, seminato, genera tempesta. Ma è soprattutto il modo di operare e il comportamento dei leaders, di volta in volta ai vertici del potere politico, che testimonia il progressivo venir meno della dimensione sociale nella politica.  In ogni dichiarazione emerge e si afferma l’io: io ho fatto, io ho detto, io ho ottenuto, io,.. io…  I leaders non sono più i rappresentanti delegati della comunità; sono la comunità.  Che differenza c’è, a questo punto, con gli Stati teocratici, in cui il sacerdote di turno è la divinità?  Il capo del partito, o del governo, rivendica se stesso e il suo operato come espressione della comunità e i suoi sostenitori acclamano ai suoi successi.  E la violenza dilaga.

       Quante volte le opposizioni hanno minacciato e continuano a minacciare il ricorso alle piazze dove è facile trovare il contributo consistente di facinorosi che esaltano la forza della protesta con la loro violenza?  E’ una prassi ormai collaudata da tempo e nel tempo, a danno di una democratica dialettica di opinioni e di proposte diverse.

       Tutta la vita democratica della nostra società è strutturata sulla violenza:  le rivendicazioni dei sindacati dei lavoratori sono dirette e amalgamate dalla violenza verbale degli organizzatori e dei loro vertici, accompagnate dalla violenza fisica delle frange estremiste e dai danni provocati agli altri cittadini;  le manifestazioni dei partiti hanno come direttiva prioritaria la cancellazione e la negazione dell’operato degli altri partiti;  le manifestazioni dei molteplici Comitati organizzativi rivendicano violentemente la loro opposizione a tutti e a tutto;  le bande criminali perseguono violentemente i loro interessi particolari.  In fondo rimane e permane la violenza particolare del singolo individuo che aggredisce chi è più debole di lui.

       Purtroppo è proprio la strutturazione della nostra società democratica che genera e favorisce il diffondersi della violenza.  Naturalmente l’uomo è aggressivo e cerca di affermarsi imponendosi su chi e su ciò che gli è vicino e che nel tempo diventa il suo spazio vitale: il processo di socializzazione dovrebbe consentirgli di sentirsi momento e valore di un tutto più grande, di un organismo che lo esalta nelle sue capacità e che si arricchisce del suo contributo.  La nostra società è nata dalla e sulla rivendicazione dei diritti, di settecentesca memoria, senza dare, contemporaneamente, altrettanto rilievo alla cultura dei doveri: non c’è diritto che non sia anche un dovere!

       Le conquiste soprattutto economiche, ma anche politiche, prima del ceto medio contro la nobiltà e poi delle forze sociali, attraverso le rivendicazioni sindacali, si sono sclerotizzate in privilegi di gruppi che non li hanno assunti anche come propri doveri.   Nel tempo si è progressivamente e contemporaneamente affermato e concretizzato un sistema dell’avere di contro al valore dell’essere:  è mio e mi spetta tutto quello che hanno gli altri, indipendentemente dal mio impegno per averlo.  E’ una mentalità che si è diffusa in particolar modo dal secondo dopo-guerra quando molto genitori, memori delle loro sofferenze e dei loro sacrifici, hanno ritenuto che i loro figli non dovessero sopportare quanto sopportato da loro.  E hanno dato, dato tutto senza chiedere nulla in cambio: in molti giovani  si è radicata la convinzione di avere un diritto che, purtroppo, anche certi giudici hanno avallato, obbligando alcuni genitori a mantenere dei figli più che trentenni, fino alla realizzazione delle loro aspirazioni, per le quali non si erano mai impegnati.

    (continua)

    Vittorio Pratola

  • Conclusioni.

    CONCLUSIONI.

       Oggi si esaltano, si rivendicano e  si riaffermano formalmente  e retoricamente i principi su cui si fondano le società occidentali, le cosiddette democrazie liberali, di contro agli Stati cosiddetti sovranisti, in particolare  quello della Russia e quello della Cina, distinguendoli da quelli di tipo sacrale, che si fondano sui principi assoluti e trascendenti della religione, perché anche essi dichiarano di essere espressione della volontà del Popolo, di essere stati eletti e scelti attraverso consultazioni popolari.

       Gli occidentali rivendicano la libertà degli elettori nelle loro consultazioni elettorali di contro alla inesistente libertà, soltanto apparente, di quelle degli altri.  Di fatto è anche soltanto apparente quella dei cittadini occidentali e soprattutto di quelli italiani, che sono chiamati a legittimare quanto è stato deciso da pochissimi capi-popolo o meglio capi-setta.

       Ciò che differenzia le democrazie occidentali da quelle orientali, perché anche queste sono democrazie, in quanto il potere discende dal popolo, ma non rimane in esso, sta soltanto nel numero dei gruppi di potere che lo esercitano.  Nelle democrazie occidentali sono tantissimi, da quelli istituzionali, da quelli sociali, da quelli economici a quelli occulti e a quelli illegittimi, mentre nelle democrazie orientali i gruppi paritetici si sono gerarchizzati, in quanto convergono in una piramide al cui vertice si è consolidato il potere di un gruppo che assomma in sé quello di tutti gli altri.

       Immagino la democrazia occidentale come uno stagno in cui guazzano in superficie razze di pesci diverse che si combattono fra di loro e insieme attaccano quelli sottostanti, mentre le democrazie orientali come un picco da cui calano da diverse altezze rapaci che colpiscono gli animali sottostanti.

       In fondo le democrazie orientali sono una derivazione di quelle occidentali, perché l’origine e la struttura è la stessa , ma un potere, o meglio il potere di un gruppo, assume la forza di tutti e domina gli altri.

       La libertà del cittadino è soltanto un vessillo sbandierato da tutti, dietro al quale la volontà del Popolo è interpretata, orientata e trasformata in mille modi diversi dagli innumerevoli gruppi di potere che muovono le masse a loro piacimento.

       L’egoismo naturale, che è il lievito della vita dell’individualità umana, rende sempre possibile  il costituirsi  e il trasformarsi di gruppi  che si contendono il diritto di prevaricazione sugli altri e quindi l’affermarsi di interessi egoistici di parte sempre nuovi e sempre diversi.  Perfino l’altruismo può diventare espressione e rivendicazione del proprio egoismo e dare vita a gruppi intolleranti di altri interessi e di altri egoismi.

       La convivenza umana è mitigata nella sua ferocia soltanto dai sentimenti  che sono sempre di breve durata e che appartengono alla sfera del singolo e da ideali che possono diventare centralizzanti nella sua esistenza.

    Vittorio Pratola

  •  12. La Fratellanza.

       La terza idealità rivendicata e trasmessa alla democrazia dalla Rivoluzione Francese è la Fraternité, un principio a sua volta derivato dal messaggio cristiano: ama il prossimo tuo come te stesso.

       Dove si parla di potere non c’è posto per la fratellanza.  In democrazia il potere si esercita attraverso il gruppo, nel gruppo e tra i gruppi che in essa sono molteplici e tutti in competizione tra loro.

       L’uomo è il più egoista degli animali, o forse è l’unico animale egoista ma l’egoismo non può esserci se manca la relazione umana, cioè la società.  Un uomo solo su un’isola deserta non può essere egoista, perché non può competere né confrontarsi con un altro simile a lui.   Gli animali competono fra di loro, ma accettano il proprio ruolo e non cercano il cambiamento.  L’uomo ha bisogno della novità, guarda al futuro, sogna ciò che sarà nella sua irripetibile identità che deve affermarsi anche attraverso gli altri.

        L’egoismo si manifesta fin dalla prima infanzia dal momento in cui il nuovo venuto al mondo cerca di diventare il centro dell’ambiente.  Istintivamente il bambino piange quando ha un bisogno, un comportamento innato che si ripete se provoca l’eliminazione del bisogno ma che può anche venir meno se ciò non avviene.  Nel primo caso, quando cioè la madre o chi per essa soddisfa il bisogno del bambino di mangiare o di essere pulito, dopo breve tempo, il bambino associa al pianto il venir meno del bisogno per cui al solo intervenire della madre, pur non essendo stato soddisfatto il bisogno, smette di piangere.  Il pianto, in tal modo, può diventare uno strumento di pressione sugli altri per ottenere ciò che vuole.

       Da questo punto di vista l’egoismo si manifesta come forza di condizionamento degli altri per il soddisfacimento dei propri bisogni, ma nella vita umana è molto di più.  L’egoismo è il bisogno del confronto con gli altri e contemporaneamente il bisogno di uscire da sé:  è bisogno di emergere e di differenziarsi dagli altri e, in tal senso, è la molla della storia, della civiltà.  E’ “…ardore ch’io ebbi a divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore” che Dante attribuisce a Ulisse che né l’amore per il figlio e per la moglie, né la pietà del vecchio padre poterono vincere.  L’egoismo è il proiettarsi oltre se stesso, meraviglia della scoperta e insoddisfazione per quello che si è e per quello che si ha:  e’ ambizione ma anche desiderio e speranza che si manifestano nel rapporto e nel confronto con gli altri per essere diversi e certamente più soddisfatti di sé.

       Da un altro punto di vista, dove c’è egoismo non può esserci fratellanza che vuol dire sentirsi uguali agli altri, accettare e rispettare gli altri, considerare, come affermava Kant, l’umanità sempre come fine e mai come mezzo.  Là dove  si esercita il potere, l’altro è uno strumento per l’affermazione dell’egoismo individuale e quindi è diverso e soprattutto inferiore.  La struttura piramidale del gruppo comporta di per sé la negazione della fratellanza, che implica l’uguaglianza di tutti e il riconoscimento della loro identità.

       La fratellanza è la sublimazione, o meglio, l’idealizzazione di uno stato d’animo che non è un sentimento ma un’emozione che può essere anche di forte intensità ma è sempre di breve durata.  Di fronte a tragedie umane, a sconvolgimenti naturali o a situazioni in cui uno o più uomini subiscono sofferenza e violenza, nasce questa emozione simpatetica in cui si opera una sorta di identificazione con l’altro o con gli altri.  Non c’è più differenza, perché tutti si riconoscono, uguali, fratelli, ossia di potersi trovare nelle stesse situazioni.

       Purtroppo questo stato d’animo non ha durata ed è soggettivo, individuale.  Certamente, in

     certi casi particolari, in certe determinate situazioni psicologiche , può diventare centralizzante e totalizzante, acquistando la forza di un ideale che annulla perfino l’istinto di sopravvivenza, l’istinto fondamentale della vita.  La vita, infatti, è sempre lotta per la sopravvivenza.  Basta pensare non soltanto alla vita vegetale dove ogni specie convive in competizione con le altre, ritagliandosi un suo spazio vitale e sfruttando quello delle altre, ma soprattutto a quello animale.  All’interno della stessa specie vige la legge del più forte che riesce a sopravvivere determinando la morte dei più deboli, impedendo loro di nutrirsi, in certi casi, o addirittura uccidendoli direttamente, per non parlare della lotta per la riproduzione.

       Come per le piante e gli animali, così avviene per l’uomo che è il più accanito difensore della propria vita.

       Discendendo da uno stato d’animo, la fratellanza, ovvero il senso della fratellanza, non è né universale, né necessariamente presente sempre e in tutti gli uomini.

       Prendiamo in esame l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e le conseguenti sofferenze dei civili per discutere della fratellanza.

       Fratellanza implica compartecipazione, condivisione e sostegno a chi soffre, per cui le decisioni politiche  degli Stati occidentali di intervenire anche con aiuti militari a favore dell’aggredito sofferente hanno trovato un forte sostegno nell’opinione pubblica emotivamente condizionata.  Basta pensare alla grande partecipazione popolare ad inviare aiuti umanitari e ad offrirsi per accogliere i profughi.

         Ma l’emozione è di breve durata e ben presto il perdurare della guerra e delle sue terribili conseguenze non crea più un’eco nelle coscienze individuali anche perché le sanzioni  alla Russia cominciano a determinare effetti negativi sulla vita quotidiana degli altri   popoli.  Quando si avverte il pericolo di perdere qualcosa che si considera proprio, l’egoismo naturale riemerge e i problemi degli altri non sono più i propri:  la fratellanza non ha più significato e rilevanza.

       Ben lo sanno gli oppositori che accentuano le conseguenze negative dell’azione politica dei governanti fornendo alle coscienze individuali l’alibi e la giustificazione dei loro timori , ribaltando perfino la colpa della guerra e delle sue catastrofi:  chi fornisce la armi agli aggrediti è colpevole delle ulteriori stragi che il continuare della guerra comporta.

      Purtroppo la fraternité della Rivoluzione Francese resta un ideale molto astratto  nelle cosiddette  democrazie occidentali, nate sul potere del singolo uomo e che è diventato l’esercizio del potere dei gruppi nel loro continuo, costante scontro dei propri interessi.

        Resta il fatto reale che la solidarietà presente in ogni consorzio umano, e quindi anche nella democrazia,  si fonda sul sentimento che è strettamente individuale e pertanto attuata e perseguita da singoli individui che operano autonomamente.  Quando subentrano le associazioni, le consorterie, i gruppi, prevalgono altri interessi in cui si perseguono finalità del tutto diverse da quelle dettate dai sentimenti.  Per i partiti, in particolar modo, come per i sindacati, ma anche per tante istituzioni benefiche, altrimenti dette no profit,  la solidarietà è uno strumento temporaneo e contingente per aumentare il consenso e quindi la forza contrattuale nell’agone democatico.

    Vittorio Pratola

  • 11. La democrazia: l’uguaglianza.

    Il secondo ideale fondativo della democrazia, derivato dalla Rivoluzione Francese, è l’uguaglianza, ma questa è soltanto un’utopia improponibile, ingiustificabile e assolutamente inesistente in Democrazia.

       Ogni uomo è diverso da ogni altro uomo: il codice genetico, perfino nei gemelli monozigoti è diverso, così come sono diverse, anche se non è del tutto acclarato, le impronte digitali.  Nell’ipotalamo, il cervello conserva l’ancestrale retaggio filtrato attraverso gli antenati, fino ai genitori e che, pur comune a tutti, è irripetibile in ciascuno.   Fin dall’inizio della vita intrauterina la corteccia cerebrale si struttura in relazione alle esperienze che l’individuo fa; sensazioni, suoni, movimenti e umori della madre vanno ad incidersi su di essa, diventando condizioni di ricettività e di assorbimento delle successive esperienze, ma anche la corteccia cerebrale è sempre strettamente collegata con l’ipotalamo.  E’in fondo la relazione, delineata da Sigmund Freud, tra Es, io e super-io, tra inconscio, subconscio e coscienza.  Ogni uomo è un risultato genetico ma contemporaneamente un risultato storico, legato alle sue esperienze al modo come sono state integrate con il genetico, al modo come esse si sono articolate fra di loro e all’incidenza che hanno avuto nel momento in cui sono avvenute.  L’uomo è un essere dinamico, nel senso che l’innato e l’acquisito, compenetrandosi, costituiscono la sua dimensione unica, la sua diversità rispetto a tutti gli altri.

       In democrazia si parla acriticamente di uguaglianza di tutti i cittadini.  A parte le differenze genetiche, esistono le differenze economiche, le differenze sociali, le differenze culturali che incidono profondamente sulla dimensione di ogni individuo.  Una effettiva uguaglianza sarebbe possibile soltanto se tutti i cittadini avessero lo stesso punto di partenza per poter realizzare se stessi, attivando le proprie potenzialità e realizzando le proprie aspirazioni, ma ciò è impossibile, perché la democrazia si fonda sulla diversità dei cittadini o meglio sulla loro gerarchizzazione. 

       La personalità si realizza grazie agli stimoli che l’ambiente ci propone, grazie alla molteplicità di esperienze che possiamo far nostre attraverso la trasmissione di esperienze altrui.  Più è ampio l’orizzonte di queste esperienze più possibilità ha l’individuo di diversificare la sua dimensione personale.  E’, in fondo, quell’apertura mentale che genericamente si dice essere di chi ha viaggiato molto, di chi ha fatto esperienze diverse che lo hanno reso disponibile ad uscire dai propri schemi mentali perché capace di comprendere gli altri.  La funzione della scuola dovrebbe essere quella di far uscire ogni giovane dagli schemi ristretti del suo ambiente, di farlo viaggiare attraverso il tempo e lo spazio ad incontrare le conquiste degli uomini e farle proprie, ad acquisire alternative di comportamento, a confrontare modi di vivere, di agire e di attuare i propri criteri di esistenza.  Una volta, nel medioevo, i discepoli seguivano i maestri, cercavano di prendere da chi era capace e creativo il meglio per farlo proprio e per superare lo stesso maestro.  La scuola, cosiddetta democratica, propone modelli educativi riduttivi e conservativi: si adegua alla mediocrità per essere democratica, senza pensare che in tal modo impedisce quelle differenziazioni individuali in cui consiste realmente l’uguaglianza.  Chi vive in un ambiente degradato culturalmente, chi resta chiuso nel suo mondo limitato e limitante di esperienze non può usufruire nella scuola di stimoli, di esperienze, di sollecitazioni, di comportamenti che possano farlo crescere.

       In democrazia, di fatto, l’uguaglianza consiste nel lasciare ciascuno solo con sestesso: può fare quello che vuole, può dire quello che vuole, è libero di affermare le sue opinioni. Certo il principio ideale sembra stupendo, ma totalmente falso se si pensa ai condizionamenti economici, ai condizionamenti sociali, alle contingenze ambientali e alle esperienze di vita del tutto diverse da ceto a ceto e da individuo a individuo. Se un individuo resta chiuso in un mondo limitato in cui le sollecitazioni restano ripetitivamente sempre le stesse, con l’assillo della soddisfazione dei soli bisogni primari dell’esistenza, non può crescere, non può trovare e tanto meno cercare qualcosa che è al di là del suo mondo, dei suoi condizionamenti sociali e culturali.

      In democrazia si dichiara l’uguaglianza di tutti i cittadini, a parole però.  Si può rilevarlo a cominciare dalla scuola: la scuola pubblica, la scuola dell’obbligo scolastico.  Tutti hanno diritto ad esser educati, a saper leggere e scrivere, ad avere un’istruzione minima per esercitare la propria libertà.  Nel tempo si è passati dalla scuola elementare a quella media ed ora si parla di arrivare a frequentare la scuola fino alla maggiore età.  Tutti debbono poter conseguire un diploma di scuola media superiore: è una questione di giustizia e di uguaglianza.  Ma l’uguaglianza si è realizzata abbassando sempre più il livello culturale.  E’ l’uguaglianza formale di chi ha conseguito un diploma, magari con il sei politico; è la scuola del popolo dalla quale fuggono i figli di chi ha una posizione rilevante nella società democratica.  La scuola di Stato è la scuola del popolo, ma i figli dei potenti o dei benestanti frequentano le scuole private o le scuole estere, dove si consegue un’effettiva preparazione non soltanto culturale, ma anche comportamentale, perché essi dovranno dirigere il Popolo, perché essi debbono essere i potenti di domani.  In democrazia, in fin dei conti, l’uguaglianza consiste nella possibilità di ogni uomo di poter sopravvivere nella sua limitatezza. 

       D’altronde la stessa struttura dello Stato democratico, che risulta da una molteplicità di gruppi di potere, impedisce che la scuola possa essere un ambiente che dia a tutti le stesse possibilità di crescita e di realizzazione delle proprie capacità.   A parte le numerose eccezioni individuali, il corpo docente non accoglie i migliori, i maestri, perché in una società fondata sugli interessi di parte non c’è valorizzazione della loro funzione, né stimolo ad impegnarsi.  Spesso molte persone che non trovano altri sbocchi lavorativi, senza preparazione, senza un vero interesse e senza impegno, vanno ad intrattenere i giovani, non ad educerli a farli uscire dal proprio mondo limitato, soprattutto perché non né hanno la capacità.

       Inoltre l’uguaglianza formale, in modo offensivo e farisaico, esplode nella terminologia ufficiale quando un povero bambino o un uomo ritardato mentale è un diversamente abile, o un cieco è un non vedente, perché gli eufemismi eliminano le differenze che caratterizzano e debbono caratterizzare gli esseri umani.  In che cosa sono uguali i bambini dell’alta borghesia, dei tecnocrati, dei politici, dei plutocrati, di chi detiene un potere e i bambini disadattati, i figli degli indigenti, gli orfani abbandonati o affidati a istituzioni più o meno benefiche o chi vive in ambienti degradati?   E’ come dire che se prendessi un bambino di una tribù dell’Amazzonia e lo inserissi in una classe di bambini romani lo avrei reso uguale agli altri soltanto perché lo ritengo diversamente abile! 

       Forse il Messaggio cristiano è il solo che ha indicato in che cosa consista l’uguaglianza degli uomini.   Per il Cristianesimo l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio e ogni uomo è uguale solo a sestesso, perché Dio dà a ciascuno un numero diverso di talenti, ossia di potenzialità che possono attivarsi e moltiplicarsi o restare infruttifere.  Ciò che rende uguali gli uomini è la loro volontà di diversificarsi dagli altri in un processo di autodeterminazione che, in fin dei conti, coincide con la sua libertà: libertà di essere se stesso, libertà, come scelta consapevole, di autocrearsi, ossia di attuare qualcosa che prima non c’era come proprio arricchimento.  L’uguaglianza non è nel punto di arrivo, intesa come conseguimento degli stessi livelli, degli stessi parametri che, in democrazia, coincidono con il conseguimento di un diploma formale: è l’uguaglianza del punto di partenza, ossia possibilità di non avere impedimenti alla propria realizzazione. 

    Vittorio Pratola