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MEZZI DI COMUNICAZIONE E FATTI DI CRONACA NERA
4° puntata
La scuola vive e propaga il processo di massificazione, perché anche quei pochi docenti che continuano ad essere maestri, perché gratificati dai risultati conseguiti nel rapporto diretto con una parte degli studenti, sono demoralizzati e si adeguano alle disposizioni vigenti, dando a tutti una valutazione positiva, puramente formale.
Ma i Soloni continuano a pontificare su ciò che deve fare la scuola, proponendo nuove direttive, interventi particolari, discipline innovative e chi più ne ha più ne metta, perché i docenti da esperti delle diverse discipline divengano riformatori, apostoli di una società perfetta che li sostenga in una realtà idilliaca, fuori del loro tempo.
D’altra parte chi sono e che cosa sono i beneficiari della scuola? I giovani non sono forse anche loro espressione del loro tempo? Le nuove generazioni vivono quotidianamente il modo di essere della società che sempre più accentua la rivendicazione del diritto ad avere. L’evoluzione economica ha, in parte, contribuito ad avvalorare la convinzione che fosse possibile soddisfare tale richiesta e l’involuzione della politica e del sindacalismo ha sostenuto e continua a sostenere questa chimera, promettendo, per motivi di potere, la giusta distribuzione di tutto a tutti, indipendentemente dal contributo di ciascuno. Il clima illusorio, che i giovani, e non soltanto i giovani, respirano quotidianamente, sembra essere reale, grazie al progresso economico e sociale che, in parte, concorre a farlo sembrare possibile. I giovani chiedono ed hanno, anche se a volte i genitori si svenano per soddisfare ogni loro richiesta. La scuola, nella sua dipendenza dal formalismo sociale che la permea, subisce un accondiscendente buonismo, che lascia effettivamente ciascuno nei propri limiti culturali. I giovani vogliono ed hanno il rispetto, l’uguaglianza, la considerazione, perché dovuto, ma tutto è soltanto formale. Basta pensare ai termini da usare per non offendere chi ha delle diversità psico-fisiche, confondendo il rispetto per la persona umana con il non vedere tali diversità e, sempre formalmente, vengono considerati uguali agli altri e trattati alla stessa maniera, quando invece, dovrebbero essere messi in condizione di avere le stesse possibilità di crescita, con strumenti e situazioni ambientali appropriate. Gettarli nel mucchio è, per i grandi competenti della società, renderli uguali agli altri!
I progressi tecnologici e la diffusione capillare dei mezzi di comunicazione accentuano il formalismo della società moderna e il vuoto interiore che ad esso si accompagna. I giovani, in particolare, subiscono sollecitazioni visive e uditive incessanti, ma non è da meno per gli adulti. La corsa all’avere è frenetica, perché quello che si ha è sempre poco ed è sempre al di qua di quello che i personaggi dello spettacolo, dello sport, della politica, in una parola di coloro i quali rappresentano gli ideali sociali del momento, come gli influencers di turno, propongono. E’ una corsa continua a cercare di adeguarsi a loro, formalmente, perché il vuoto interiore cerca una sua forma esteriore, in cui ritrovarsi. In tal modo, soprattutto i giovani che sono privi di un personale punto di riferimento, cercano una propria identità adeguandosi ai modelli di moda, accentuando in tal modo, il processo di imbrancamento e di uniformità formale che caratterizza la società attuale.
Le sollecitazioni che vengono dai mezzi di comunicazione, immagini e suoni incessanti, frenetici e frastornanti, non riescono a diventare vita interiore, sia perché i soggetti non sono in grado di riceverle criticamente, sia perché si rincorrono e si accavallano senza interruzione. E’ un mondo di immagini che nulla ha con la realtà in cui il soggetto non è più soggetto ma oggetto, perché vissuto dall’esterno. Manca il silenzio, manca cioè il momento in cui il soggetto personalizza le sollecitazioni che gli vengono dall’esterno, elaborando una sua, originale, autentica assimilazione, ossia la propria dimensione personale.
Chi non ha avuto la possibilità di costruire un sé al quale far riferimento nel rapporto con il mondo esterno, non può fare altro che subirlo e quando la realtà dell’esistenza pone di fronte alle prime difficoltà l’unico comportamento a cui ricorrere è quello istintivo: la violenza.
Così la violenza della società entra prepotentemente anche nella scuola, dove il confronto con i coetanei rende più facile la consapevolezza dei propri limiti e della propria incapacità.
D’altra parte, il vuoto interiore che permea diffusamente la nostra società, fa cercare nel frastuono, nelle formalità un significato della propria dimensione individuale, ricorrendo all’uso di droghe sempre più pesanti ed aggressive o entrando a far parte di bande e consorterie malavitose e settarie.
Non è la scuola che può trasformare la società, ma soltanto gli uomini che la compongono: Certamente non quelli che pontificano nel vuoto formalismo accademico di una società malata, proprio perché incapace di restituire a ognuno una dimensione propria, il valore individuale, la personalità.
E’ triste, ma bisogna dire che la guerra, con la sua violenza, le sue sofferenze, la sua ferocia, come anche le grandi catastrofi naturali, sono le condizioni che restituiscono all’essere umano la volontà e la capacità si rientrare in se stesso, di rimboccarsi le maniche e ridiventare faber fortunae suae. E’ proprio nei momenti di grande tragedia che l’uomo riscopre le sue capacità di reazione e apprezza quanto riesce ad ottenere con le sue forze. Ritrova e riscopre il senso di una vita operosa in cui trova anche la soddisfazione di attivare e valorizzare se stesso, ma soprattutto riemerge quell’umanità, quel senso della collettività che si perde quando è prevalente il solipsismo e l’individualismo esasperato. In quei terribili momenti, anche se non mancano mai gli sciacalli, bestiali espressioni della ferinità umana, ci sono e ci sono state tante persone anonime che hanno compiuto e compiono gesti eroici, a rischio della loro vita, nei confronti perfino dei nemici. E’ in quei momenti che la solidarietà, l’altruismo, il disinteresse personale, il senso dell’umanità tornano a vivificare le relazioni sociali e a restituire al singolo la sua vera dimensione sociale.
Sono testimone che mia madre, presunta vedova di guerra, con quattro figli, ha ospitato un giovane ricercato dai tedeschi per l’arruolamento, di cui ricordo ancora il nome. Successivamente ha accolto tre partigiani, di cui uno francese, dividendo con loro lo scarso vitto disponibile. Successivamente ancora, ha protetto un giovane tedesco in fuga, solo perché erano stati condotti, tutti, da mio fratello sedicenne. Sono atti compiuti con la spontaneità e la semplicità di chi riesce a vivere empaticamente anche le sofferenze degli altri ed agire di conseguenza e che possono esserci solo quando nella società si riconquista il valore dell’umana operosità.
Vittorio Pratola
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MEZZI DI COMUNICAZIONE E FATTI DI CRONACA NERA
3° puntata
La rivendicazione del diritto allo studio, un diritto inteso come ottenimento di una valutazione positiva e quindi di una partecipazione passiva alle attività scolastiche, per un falso concetto di uguaglianza, non ha alcun valore formativo e rende le nuove generazioni incapaci di affrontare le difficoltà che la vita comporta. Invece di formare il carattere e di stimolare la volontà ad essere, riduce l’individuo alla propria debolezza, lo chiude in se stesso, di fatto lo isola, solo, nella massa. Alle prime difficoltà, il comportamento conseguente è quello del ricorso all’istinto: non sa come affrontare la situazione e diventa aggressivo. La violenza che è una manifestazione sempre più diffusa della società democratica, è l’unico modo di rispondere, quando non si hanno gli strumenti per valutare la situazione e cercare una risposta.
Quando i Soloni pontificano sulla scuola, dimenticano che la scuola è un’espressione della società, non è al di fuori, non è in una dimensione iperuranica: vive e trasmette tutto ciò che la società del tempo comporta.
Il formalismo burocratico dello stato democratico pesa fortemente sul processo educativo, accentuando il processo di massificazione e di appiattimento scolastico. Pensiamo agli interventi dei Magistrati che ribaltano nella sostanza, per vizi di forma, il giudizio espresso da un collegio di docenti, che sono gli esperti delle diverse discipline, ergendosi in tal modo a super esperti capaci di giudicare meglio di loro. Pensiamo al formalismo che colpisce anche le valutazioni degli insegnanti e le stesse interrogazioni. Per la riservatezza, i voti che gli insegnanti danno sono riservati e l’interrogazione, con il voto conseguente, è un rapporto tra insegnante e studente, come se non fosse il momento più importante del processo educativo che si realizza pienamente là dove l’assimilazione da parte di uno studente, delle lezioni dell’insegnante, si confronta con l’assimilazione personale di tutti gli altri studenti della classe. L’interrogazione è un rapporto corale continuo, così come la valutazione che non è appannaggio solo dell’insegnante, ma anche dei singoli allievi che imparano ad avere coscienza di sé
Il bambino molto piccolo impara guardando gli adulti ma facendo prova di sé, sbagliando e correggendosi, ripetendo gli sforzi per conseguire l’attuazione di ciò che vuole fare. E’ fortemente gratificato dalle conquiste che fa e dagli apprezzamenti di chi gli è vicino. Vuole essere lui il protagonista a superare le difficoltà che incontra così che le sconfitte, se non sono gravi, non gli impediscono di riprovare, anzi lo stimolano a ritentare e a provare di nuovo
Il bambino impara a conoscere il rischio, per affrontarlo o evitarlo, provando e riprovando, facendo con ciò quelle esperienze in cui consiste la realizzazione di sé. In tal modo cresce l’autostima e si incrementano il suo impegno e le sue conquiste, cioè la sua personalità. Il “no” dell’adulto è l’avvertimento e l’aiuto a non incorrere in un rischio che l’allievo non conosce ma è anche il limite a comportamenti che recano danno agli altri e quindi diventa educazione alla società. Nella scuola il voto è il no dell’adulto al bambino ed ha la funzione dell’ostacolo da affrontare e superare, è uno stimolo a rendersi attivo protagonista della propria formazione e a non rimanere passivo spettatore di una realtà che non lo coinvolge, ma è anche la conseguente evidenziazione della mancanza d’impegno e di partecipazione ai rapporti sociali, la conseguenza del suo comportamento e, quindi, altamente educativo per la vita.
Casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia: il vecchio adagio condensa la sapienza dell’uomo operoso. La casa non è soltanto ciò che l’uomo ha prodotto, ma è la sua stessa dimensione, è lui nella propria realizzazione, è la conquista della propria vita. Quanto più grande è l’impegno per avere, tanto più grande è la soddisfazione e l’apprezzamento di ciò che si è saputo acquisire
Il processo di appiattimento in basso del livello culturale, nella scuola di oggi, è il corrispettivo del processo di massificazione della società democratica. La massa è uniforme nel senso che è un agglomerato informe, non strutturato, di individui chiusi in sé stessi, estranei ognuno agli altri, soli nella molteplicità, la massa.
Nella società democratica il livello di vita è indubbiamente migliorato: è il portato del progresso della civiltà, delle conquiste sociali, delle conquiste delle scienze, delle innovazioni tecniche e produttive. Purtroppo con esso si è radicata una falsa convinzione del diritto. Sulla base del principio della concezione liberaldemocratica, che è alla base della nostra società, la riappropriazione dei beni, da parte del popolo, nei confronti delle classi privilegiate, è un diritto naturale. E’ una convinzione che trova il suo avallo nella teoria di Marx, che considera il capitale plus valore, ossia quella parte del prodotto del lavoro che non viene restituito ai lavoratori e che quindi spetta loro. Perciò ormai è diventata endemica la rivendicazione del diritto ad avere tutto e subito. In economia il consumo può esserci se si produce, quando si pretende di consumare senza produrre, il prodotto non è sufficiente per tutti e quindi non resta che una lotta continua di ogni categoria di lavoratori, di contro alle altre, che poi dilaga a diventare lotta di ogni singole individuo di contro a tutti gli altri: è il dilagare della violenza di ogni genere, perché lotta significa ricorso alla forza, per cui solo il più forte ottiene il risultato e tutti gli altri vengono respinti nella loro precarietà. E’ quello che ormai è evidente nella società moderna, dove poche classi egemoni, tra cui la classe politica, godono di quei benefici che difendono strenuamente e vittoriosamente. Alle masse resta la formalità dell’uguaglianza sociale, vessillo sbandierato dai politici, davanti alla giustizia, nella scuola, nel lavoro, in un appiattimento in cui ciascuno non è più nessuno e, soprattutto, è incapace di uscire dalla propria finitezza individuale.
Vittorio Pratola
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MEZZI DI COMUNICAZIONE E FATTI DI CRONACA NERA
2° puntata
C’à da considerare, purtroppo, che dare a tutti le stesse possibilità di sviluppo e di attuazione delle proprie aspirazioni e delle proprie capacità è un’utopia irrealizzabile e irrealizzata, per molteplici motivi sociali, economici e soprattutto culturali. La scuola è obbligatoria e gratuita sulla carta ma non nella realtà. A cominciare dalla localizzazione degli edifici scolastici, per raggiungere tali strutture la spesa e il tempo necessario sono un onere molto pesante per molte famiglie, non sempre sostenibile. Poi ci sono da comprare i libri, i quaderni, le penne, le matite, le gomme, i diari e tutto il materiale che di volta in volta è necessario; per quante e quali famiglie è facilmente possibile sostenere le spese relative? Inoltre, a parte le difficoltà economiche, la scuola impegna gli studenti per un periodo di tempo molto limitato, ed è giusto che sia così, ma lo studente che vive in un ambiente deprivato culturalmente non ha le stimolazioni e soprattutto il tempo e il modo di assimilare esperienze diverse da quelle che possono avere coloro che vivono in un clima culturale elevato. Essi, spesso, sono nella necessità di soddisfare i bisogni primari dell’esistenza, e a volte della sopravvivenza, che li chiudono in un mondo ripetitivo e limitativo.
Ma c’è di più. Gli insegnanti sono esseri umani che vivono nella società del loro tempo e quindi con tutti i limiti che da essa incidono sul loro modo di essere. Ad eccezione di una minoranza che si sente realizzata nella funzione docente e che riesce a trasmettere ai discenti il piacere e il desiderio della conoscenza delle discipline che essi hanno abbracciato, la maggior parte è personale che ha trovato nella scuola l’unica soluzione per avere un impiego. La crescita molto rapida del sistema scolastico, per l’attuazione dell’istruzione obbligatoria e gratuita fino a sedici anni, ha determinato una richiesta molto accentuata di personale docente, a basso costo, che ha favorito l’ingresso di personale non qualificato o poco qualificato, per non dire squalificato.
A parte la sperequazione tra ideale della scuola democratica e l’effettiva realtà educativa, il principio dell’uguaglianza, che dovrebbe essere uguaglianza del punto di partenza per tutti, è diventato uguaglianza del punto di arrivo, grazie soprattutto ad opera della politica
La politica, o meglio certi politicanti, hanno sbandierato la rivendicazione dell’uguaglianza nella scuola, là dove, invece, dovrebbe essere perseguita la diversità di ognuno rispetto agli altri, ossia la propria qualificazione personale, il proprio significato, la propria personalità e la propria competenza, per costituire quella molteplicità armonica che dovrebbe essere la società ideale.
Il falso concetto di uguaglianza è sfociato in una forma di omogeneità, in cui le differenze individuali debbono scomparire. E’ il portato del sei politico nelle scuole medie superiori e successivamente del ventisette e trenta politico nelle università. Questo appiattimento, o meglio eliminazione, delle valutazioni del rendimento di ciascuno è esattamente il contrario di quello che si propone, idealmente, la scuola: fornire gli strumenti culturali nelle diverse discipline e valutarne l’acquisizione da parte dello studente a suo beneficio. In tal modo, invece, tutti hanno diritto a un diploma e tutti hanno il diritto ad una laurea, così sono tutti uguali, anche se tutti hanno una uguaglianza soltanto formale.
L’appiattimento in basso porta con sé un deprezzamento sempre maggiore della scuola pubblica a vantaggio di quelle private o straniere dove vanno a studiare i figli di chi può sostenere forti oneri; guarda caso quasi tutti dei politici e di coloro che appartengono alle classi privilegiate. Ma c’è di più. L’uguaglianza formale e l’appiattimento provocano violenza. I giovani, infatti, avvertono chiaramente le diversità con altri compagni e soprattutto chi si sente inferiore reagisce spesso violentemente nei confronti dei diversi che, normalmente, sono quelli che hanno capacità e rendimento maggiori o purtroppo quelli che hanno delle deficienze psicofisiche. Se sono più prestanti fisicamente usano la loro forza per affermare la loro superiorità o, meglio, per sfogare il senso di inferiorità e di vuoto interiore, di cui sono consapevoli, altrimenti si coalizzano con i loro simili che, nel branco, trovano la forza per aggredire gli altri.
Inoltre la scuola viene meno alla sua funzione sociale che è quella di rispondere alle richieste che gli vengono dal mondo del lavoro, dalle scienze, dalla tecnica, perché non fornisce quegli strumenti culturali senza cui le nuove generazioni non possono inserirsi nel processo della civiltà e contribuire al progresso sociale.
Nelle scuole elementari è stato eliminato il voto e la bocciatura, motivando tale decisione con il fatto che il bambino sarebbe traumatizzato e quindi ghettizzato con conseguenti comportamenti aggressivi nei confronti dei compagni. E’ un modo per nascondere che la scuola non può attuare effettivamente l’uguaglianza del punto di partenza, lasciando il povero bambino nella situazione di arretratezza socio-culturale che continua a soffrire nella formale uguaglianza con gli altri. E’, soprattutto, una grave forma di diseducazione, in quanto annulla quel processo di responsabilizzazione, in cui consiste l’autoeducazione, la conquista si sé. Non si può crescere, non si possono attivare capacità e abilità cognitive e operative senza avere di fronte degli ostacoli da superare, contro cui incorrere anche in sconfitte, per avere la forza di reagire. Quando la strada è sempre appianata non impegna, non richiede nessuno sforzo a percorrerla e al primo ostacolo il cammino si arresta.
La scuola dovrebbe graduare le difficoltà che sono indispensabili per far prova di sé, perché ciò che si conquista con le proprie forze è gratificante e fortemente stimolante a procedere nella propria autorealizzazione. Tutto ciò che è concesso senza sforzo, non solo non impegna in alcun modo e quindi non è formativo, ma non è neanche apprezzatp, non dà alcuna soddisfazione.
Vittorio Pratola
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MEZZI DI COMUNICAZIONE E FATTI DI CRONACA NERA
“/”1a puntata
Che pena!
Soloni che dall’alto della loro cultura pontificano su inesistenti sistemi sociali, illustrano con dovizia di particolari ipotetiche realtà utopistiche, senza tener nessun conto di ciò che è nel presente; psicologi che entrano, o pretendono di entrare, nei meandri tenebrosi della psiche umana, alla ricerca dei processi interiori di certi comportamenti; buonisti, tolleranti e comprensivi, che si dicono turbati e colpiti dai fatti ma che esprimono comprensione per chi ha compiuto certe azioni, chiedendone il recupero sociale e umano; opinionisti, quasi sempre politicizzati, che continuano ad addossare la colpa ai propri avversari. Parole, parole, parole che si rincorrono senza alcuna soluzione, puro esercizio di accademiche diatribe.
Un tema, spesso ricorrente tra tante illuminate riflessioni di questi rappresentanti della nostra cultura e della nostra società, è quello che demanda alla scuola il compito e l’onere dell’eliminazione del ripetersi di questi anomali fatti di cronaca, dimenticando l’origine, la natura, la funzione e la struttura reale della scuola. Non posso fare a meno, a questo punto, di citare il mio Maestro che diceva; chi sa insegna e chi non sa insegna ad insegnare
La scuola, come anche ogni essere umano, è legata strettamente al suo tempo e ne è dipendente.
Cominciamo dalla scuola.
La scuola è nata quando gli insegnamenti dei genitori non sono stati più sufficienti a trasmettere alle nuove generazioni gli strumenti essenziali per vivere in una società caratterizzata da ruoli e funzioni diverse da quelle che erano state della civiltà agricolo-pastorale. Nasce, in altri termini, quando subentrano delle differenziazioni sociali. Inizialmente, di fatto, hanno una connotazione religiosa, perché i rappresentanti delle divinità si distinguevano da tutti gli altri e si trasmettevano, con riti più o meno esoterici, le loro conoscenze, così come avviene ancor oggi, perfino in Italia, dove gli sciamani, discendenti degli antichi stregoni, continuano ad operare.
Nascono poi scuole misterico-filosofiche che non hanno ancora la caratterizzazione della scuola come oggi viene intesa, ma dove si discutevano e si confrontavano riflessioni e concettualizzazioni diverse. Erano persone ormai privilegiate che conservavano e trasmettevano il loro status sociale.
Nel quinto secolo a.C., con l’età di Pericle, arrivano in Atene i Sofisti, maestri di oratoria, di dialettica e di eristica, che insegnano ai rampolli delle famiglie benestanti (l’odierna borghesia) le loro abilità oratorie, per fare carriera politica. I Sofisti, pertanto, sono i primi prestatori d’opera educativa a pagamento.
In Grecia, e poi in tutto il mondo romano, continuano a fiorire le scuole filosofiche e quelle mistico-religiose. Tra le scuole più importanti, strutturate a mo’ di atenei, non possiamo fare a meno di ricordare l’Accademia di Platone e la Scuola Peripatetica di Aristotele.
In tutto il periodo medievale, le scuole sussistono ancora. Sono pittori, scultori, architetti, filosofi, spesso ecclesiastici, giuristi, ma anche guaritori (stregoni) che trasmettono ai loro discepoli le proprie conoscenze ed abilità. Con il fiorire nelle città delle arti e dei mestieri, che miglioravano e perfezionavano sempre più le loro tecniche, nascono i maestri di bottega che nei loro laboratori accolgono i giovani, futuri artigiani che daranno il loro contributo originale alle sviluppo e alle trasformazioni delle arti stesse.
La scuola, pertanto, se così vogliamo chiamare la funzione di trasmissione delle conoscenze da una generazione all’altra, è sempre stata elitaria e settoriale, nel senso che ha avuto come suo scopo esclusivo la formazione di specifiche minoranze, anche se, in età moderna, il fine della scuola obbligatoria (obbligatoria sulla carta) era quello di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, in vista di un consapevole inserimento sociale. Fine perseguito a parole ma mai effettivamente realizzato; basta pensare che fin oltre la metà del ventesimo secolo erano moltissimi gli adulti analfabeti o analfabeti di ritorno, tanto che fu necessario istituire le scuole reggimentali e le scuole carcerarie, di cui fu studente lo stesso Reina.
In ogni tempo, comunque, scopo effettivo della scuola è stato sempre la differenziazione, ossia favorire la realizzazione di specifiche competenze ed abilità in cui ogni individuo, nella sua singolarità, potesse sentirsi realizzato.
Il discorso non cambia nella seconda metà del secolo scorso, quando si comincia a parlare di scuola democratica. Si rispolvera il significato del verbo educare, che significa trarre fuori, far uscire, per affermare che la funzione della scuola è quella di permettere a ciascuno di esprimere e valorizzare le proprie attitudini e le proprie capacità. E’ pur sempre, infatti, quello che faceva la scuola nel passato: differenziare gli uomini, fare in modo che ciascuno di essi potesse essere quello che poteva e voleva essere. Certamente allora non era appannaggio delle masse, ma soltanto di pochi privilegiati pur anche appartenenti alle classi più umili. Per capirci, pensiamo a Giotto che trovò in Cimabue il suo anfitrione e il suo maestro. Davanti al figlio del contadino, infatti, si apriva una sola strada, quella di fare il contadino, seguendo la tradizione dei suoi antenati. Ideale della scuola democratica è quello di aprire davanti a tutti tante strade, perché ciascuno percorra quella che gli è più congeniale. In altri termini la scuola democratica si propone di permettere a tutti di avere l’uguaglianza del punto di partenza, non del punto di arrivo. Ciascuno ha i suoi talenti ed ognuno ha il diritto di poter conseguire la loro attuazione.
Anche nella scuola democratica, d’altronde, i docenti dovrebbero essere uomini di cultura che hanno acquisito specifiche competenze in una particolare disciplina e che, come i maestri di bottega trasmettono quelle conoscenze che sono il frutto dello sviluppo delle scienze nel tempo, Gli insegnanti non inculcano (uso questo brutto termine tanto di moda nelle polemiche sulla scuola del secolo scorso), ossia non registrano nella mente dei discenti le loro conoscenze, ma li rendono partecipi degli strumenti culturali che permettano loro di auto-educarsi, ossia di trovare la strada della propria formazione. E’ di fatto un aiuto essenziale per sollecitare l’autonomia culturale, perché fornisce gli strumenti essenziali per inserirsi sulla strada del progresso scientifico e tecnologico aperta e percorsa dagli altri uomini, nel tempo, anche se, senza l’impegno del discente, tale aiuto non ha nessuna efficacia.
Vittorio Pratola
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I FONDAMENTI CONTRADDITTORI DELLA DEMOCRAZIA
3° puntata
Nella democrazia moderna, la rivendicazione della libertà, concetto ereditato dal liberalismo settecentesco, è diventato il vessillo di ogni azione antisociale che coincide con il ritorno a quell’egoismo primordiale che è la manifestazione irrazionale dell’istinto di conservazione.
Di fatto l’essere umano, nella nostra società, cosiddetta democratica, è sempre più solo e sente il bisogno di uscire da sé, ma non è la società che riesce a dargli delle risposte soddisfacenti, proprio perché lo rigetta, nella sua solitudine, all’egoismo, ad un egoismo bestiale e non lo sollecita a quel sano e naturale egoismo che spinge l’essere umano verso gli altri. Infatti l’egoismo è tipico dell’uomo, è la condizione fondamentale della sua vita ma è anche la condizione indispensabile della sua dimensione sociale e della civiltà. Quando l’uomo è solo è debole ed aggressivo, perché vede negli altri un pericolo per la sua esistenza e l’unica arma che gli fornisce la sua natura è la violenza.
Ho definito l’uomo il più egoista degli animali, ed è vero. L’uomo rivendica in ogni suo atto, in ogni sua manifestazione il proprio ego, la propria identità, la propria centralità. Ma tutto questo altro non è che la rivendicazione della propria diversità rispetto agli altri e ciò può avvenire soltanto in una comunità, là dove ci sono gli altri rispetto ai quali distinguersi.
La civiltà è il cammino dell’uomo, il suo diversificarsi nel tempo da sé e dagli altri. L’animale non produce civiltà perché cambia soltanto per adattarsi all’ambiente: l’animale riceve dai suoi genitori gli insegnamenti che regolano i suoi comportamenti di immediata sopravvivenza ed esegue i comportamenti istintivi che gli sono stati trasmessi geneticamente. L’animale non è egoista perché non si confronta con gli altri, quando ha ottenuto quello che gli è necessario, e non vuole più di quello che ha per vivere e soddisfare i suoi bisogni fisiologici. Quando ha soddisfatto le sue necessità diventa indifferente a tutto il resto. Prendiamo, ad esempio, le società delle api e delle formiche, ma è un po’ quello che vale per tutto il mondo degli insetti: ogni individuo ha un suo ruolo che svolge per tutta la sua esistenza, certamente in funzione sociale, ma attivando esclusivamente la sua dimensione: non si confronta con gli altri individui della sua comunità ma opera parallelamente ad essi. Anche per le comunità dei mammiferi i ruoli sono statici, nel senso che ogni membro del gruppo accetta la presenza degli altri componenti in funzione della realizzazione del proprio ruolo.
L‘uomo è egoista perché guarda gli altri, non vive in sé: anche quando ha tutto quello che gli serve per la vita fisiologica, resta insoddisfatto e vede negli altri quello che gli manca. Il rapporto con gli altri gli dà la consapevolezza del proprio essere limitato e, conseguentemente, diventa lo stimolo, la spinta ad avere ciò che non ha. L’egoismo, in tal senso non è tanto e soltanto invidia degli altri, ma è soprattutto senso di frustrazione, da una parte, e desiderio di avere di più, di essere diverso, voglia di affermarsi e di crescere. E’ l’egoismo che genera la competizione ma anche l’emulazione e la socializzazione, perché è nel rapporto con gli altri che il singolo diviene più forte: L’ambito sociale è l’agone dove l’individuo esercita le sue capacità, ma dove trova anche le motivazioni e le possibilità di incrementarle e quindi di crescere e di affermarsi. L’individuo, in quanto tale, è debole e sente la sua debolezza, mentre nel gruppo si sente confortato e acquista la consapevolezza della propria forza.
Purtroppo l’egoismo che la nostra società democratica fa riemergere è quella di un individuo che non apprezza quello che ha e vuole soltanto avere anche e soprattutto a danno degli altri.
La nostra democrazia sta maturando, a livello sociale e politico, le contraddizioni su cui ha le sue fondamenta e invece di riproporre la necessità della coralità sociale, il bisogno umano di uscire da sé e di trovare negli altri quel sostegno, quell’incentivo e quella gratificazione che gli consentano di realizzarsi, esaspera e distorce la rivendicazione della propria libertà.
La libertà consiste nella possibilità di realizzare e potenziare le proprie capacità, una possibilità che soltanto la comunità può dare per cui i diritti individuali sono doveri nei confronti degli altri e non affermazione di sé contro gli altri.
Nel diciannovesimo secolo si è sentito il bisogno di contemperare diritti e doveri, ma la corsa all’avere, ossia l’esaltazione del benessere economico, ha fatto prevalere la rivendicazione dei diritti, come diritto ad avere senza mai dare.
Vittorio Pratola
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I FONDAMENTI CONTRADDITTORI DELLA DEMOCRAZIA
2a puntata
D’altra parte l’imbarbarimento della politica, se così possiamo e dobbiamo chiamarla, deriva dalla natura stessa della democrazia, perché il potere del popolo è esercitato non dal popolo ma, formalmente per il popolo, da chi lo ha assunto in qualche modo; nella democrazia esso è espressione di una maggioranza manipolata da un gruppo di tanti gruppi che fa capo a una minoranza sempre più ristretta. Infatti la cosiddetta maggioranza è soltanto la maggioranza di quei cittadini che continuano a votare e che sono sempre meno, fino a non raggiungere il cinquanta per cento degli aventi diritto.
Se il processo di concentrazione del potere arriva al suo culmine, la democrazia è morta in quanto, come diceva Aristotele, quando la democrazia diventa demagogia, arriva la tirannia. Oggi, purtroppo, la maggior parte dei politici sono, per un falso e improprio concetto di uguaglianza, degli arrivisti senza scrupoli, spesso incapaci di svolgere le funzioni che un politico dovrebbe avere, arrampicatori sociali che i detentori effettivi del potere portano al loro fianco proprio per difendere e rafforzare il loro potere.
E’ in questo clima che è sempre più facile vedere azioni politiche demagogiche che, a loro volta, provocano la violenza sociale, frantumando i vincoli di solidarietà che dovrebbero caratterizzare una società civile: la massificazione diventa riduzione dell’individuo in se stesso, senza possibilità di confrontarsi con l’altro e la stessa struttura sociale tende sempre più ad appiattirsi in basso. Aumentano le masse perché gradualmente scompaiono le classi e la lotta tra di esse, che in qualche modo favoriva un riscatto individuale sempre più esteso, lasciando il posto ad una violenza endemica tra singoli, ognuno solo contro tutti gli altri. E’ la frantumazione della società che sfocia nell’individualismo più sfrenato, con un conseguente ritorno alla ferinità dell’uomo primitivo: la violenza di ogni genere. La solitudine genera l’angoscia della propria insufficiente precarietà e il risentimento nei confronti di se stesso e degli altri. Diventa sempre più urgente il bisogno di uscire dalla propria solitudine e nascono le bande minorili e non, le sette misteriche, le consorterie le più disparate, in cui e per cui sentirsi più forti, confortati e sostenuti.
Un’altra contraddizione insita nelle società democratiche occidentali e che ormai è esplosiva è il retaggio del liberalismo settecentesco.
Nella teorizzazione del padre del liberalismo, John Locke, l’uomo nasce con tutti i diritti naturali, tra cui i più importanti sono il diritto alla libertà e quello alla proprietà privata. D’altra parte egli era un rappresentante della borghesia inglese che ormai aveva assunto il potere economico e pretendeva anche quello politico, per cui è facilmente comprensibile la sua posizione. Conseguentemente lo Stato non è un’entità superindividuale, ma il risultato di un contratto sociale in cui il cittadino delega temporaneamente il suo diritto a farsi giustizia, quando, e soltanto, i suoi diritti vengono lesi. Essendo lo Stato uno dei contraenti del contratto, anch’esso può essere condannato se viola il contratto e il cittadino si riappropria del diritto naturale. Da qui la giustificazione teorica della condanna a morte di Carlo primo, eseguita nel 1649.
La società si configura come un insieme di entità complete in se stesse, autosufficienti e autorealizzantisi, che non hanno nessun bisogno di rapportarsi agli altri, piccoli mondi tangenti e che non debbono intersecarsi tra di loro: un agglomerato di monadi, come le chiamerà il Leibniz.
Nell’ideologia liberale l’individuo si esalta e si contrappone alla società, distinguendosi dagli altri e affermando una propria dimensione, un proprio significato e un proprio valore che non è riconducibile agli altri. E’ fondamentalmente l’esasperazione individualistica che è, a sua volta la negazione dei valori della collettività e di ogni contributo sociale. E’ esattamente il contrario di ciò che è implicito nel concetto di democrazia. La società democratica non può essere un insieme di individui, ma il risultato del loro incontro, del loro integrarsi, della loro collaborazione. Nella società l’individuo si realizza, perché trova le condizioni per attuare e sviluppare le sue capacità e le sue aspettative, grazie al contributo degli altri. Un bambino, allevato dagli animali, resta un animale, con grave deficit intellettivi, mentre se vive in un contesto umano, ne assimila le sollecitazioni e a sua volta contribuisce al progresso sociale degli altri.
Vittorio Pratola
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I FONDAMENTI CONTRADDITTORI DELLA DEMOCRAZIA
1° puntata
Uno dei fondamenti della democrazia moderna è la violenza, perché essa nasce con le Rivoluzioni Inglese,del milleseicento, e Francese, del secolo successivo e continua nel novecento con le lotte del proletariato contro la Borghesia capitalistica, nelle quali il contributo del popolo è soltanto strumentale.
Nelle rivoluzioni, infatti, le masse sono soltanto uno strumento di cui le classi intermedie si servono per la conquista del potere. Si comincia a parlare di Popolo, ma in effetti è soltanto un modo formale e illusorio per motivare delle forze di cui solo i grandi gruppi di uomini possono disporre.
Le successive lotte proletarie del novecento vedono emergere dalle masse una componente consistente del progresso economico, la classe operaia, ma è sempre una parte del cosiddetto Popolo che resta forza cieca e violenta da utiilizzare al momento opportuno.
Era una violenza orientata in cui l’interesse comune sublimava l’interesse privato e che, in qualche modo, coinvolgeva e convinceva anche la media borghesia. Essa era illuminata dall’ideale della libertà individuale e della fratellanza e rendeva sociale il singolo facendolo sentire parte importante e indispensabile di un’entità superiore: la Società. I Partiti e le organizzazioni sindacali contribuivano a sciogliere l’egoismo individuale nel perseguimento del Bene comune, nell’anonimato dei programmi rivendicati per la collettività e gli esponenti dei partiti non apparivano mai come protagonisti o come leaders, ma come anonimi e disinteressati operatori al servizio della società, esecutori di un Ordine sociale a cui essi stessi obbedivano.
Il venir meno della coralità sociale non è iniziato nelle masse sociali, ma proprio dalla politica e dal sindacalismo. L’evoluzione sociale, che si è perfezionata nella seconda metà del secolo scorso, ha portato ad un appiattimento delle classi sociali e ad una massificazione sempre più consistente che ha tolto, ai Sindacati prima e alla politica dopo, la giustificazione dei loro programmi. Scomparso il proletariato, i Sindacati, che si sono sempre e soltanto interessati dei lavoratori dell’industria, hanno cercato soltanto di ritagliarsi un pezzo di potere politico, inseguendo rivendicazioni salariali sempre più settoriali e spesso anche antisociali. Altrettanto i partiti hanno ridotto sempre più, fino ad eliminarlo del tutto, quel carattere di impersonalità e di super individualità e soprattutto di imparzialità nei confronti delle classi e dei bisogni dei cittadini.
Gradualmente, ma sempre più intensamente, i partiti sono diventati terreno di scontro di singoli per la conquista del potere, organizzazioni verticistiche in cui le linee guida sono dettate dal capo ed eseguite pedissequamente e obbligatoriamente dai gregari, pena l’esclusione dal banchetto. Non c’è un programma; c’è il Capo e lo stesso nome del partito è il Capo. Ogni gruppo di potere diventa un partito ed ogni partito è un coacervo di sottogruppi di potere, tra cui continua la lotta per acquisire un potere maggiore,
Ogni azione politica si riduce ad una continua polemica partitica su problemi sempre più particolari e contingenti, occasionali ed estranei alla politica stessa. Aspre discussioni polemiche nascono perfino su occasionali espressioni verbali o su comportamenti formali di anonimi esponenti di partito. Sono diatribe violente e continue che nascondono il vuoto lasciato da motivazioni e programmazioni dei veri problemi sociali. Volta per volta, sempre in vista di confronti elettorali e possibilità di coagulare intorno a sé un maggior numero di sostenitori, i singoli capigruppo sventolano vessilli illusori di benefici che non sarà mai possibile erogare.
E la corruzione dilaga.
La violenza, nell’agone politico, diventa sempre più diffusa e virulenta. Non è una violenza soltanto verbale perché personalizzata e quindi non è scontro di principi, di convincimenti. Sono le persone come individui che vengono attaccate e l’antagonista diventa un nemico, un nemico da odiare, da distruggere, anche fisicamente, se fosse possibile. Basta pensare alle campagne per le elezioni politiche in America, dove non c’è alcun limite alla guerra tra i contendenti, a livello soprattutto personale.
Gli Stati Uniti discendono dai colonizzatori venuti dall’estero: uomini soli, avventurieri, disperati pronti a tutto, per i quali vigeva la legge del più forte. Mors tua, vita mea era di fatto la legge dei cowboys che con la pistola al fianco erano sempre pronti a sparare. Ma se guardiamo il livello a cui è scesa la politica della nostra democrazia, la differenza con quella americana non si nota. L’individualismo esasperato ha portato nella politica il culto della personalità e conseguentemente la lotta tra individui, una lotta continua, senza regole, dove niente è proibito. I leaders si combattono tra di loro e ognuno rivendica la paternità di successi particolari, perché il partito non ha altro programma oltre quello contingente, occasionale e prospettico che è quello del Capo.
La Politica, nel suo significato intrinseco, viene da Polis, la città, dove i cittadini sono artefici del bene comune, ma la politica è diventata appannaggio dei politicanti, di quegli individui che antepongono a tutto la propria affermazione e il proprio valore: io ho fatto, io ho detto, io… io…io.
Vittorio Pratola
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LA SECONDA REPUBBLICA
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6a puntata
L’Italia di oggi è un paese in atteaa, costernato e deluso di fronte ad una classe poltica che ha ereditato tutti i limiti di quelli che grandeggiavano nella prima, perseguendo soltanto i propri interessi individuali, e che di quelli ha accentuato i difetti e l’egoismo. Non c’è peggior tiranno di chi ha dovuto obbedire al tiranno e non c’è peggior amministratore di chi ha visto amministrare la Cosa pubblica come cosa privata.
La reazione a situaziooni stanche e senza vie di uscita è violenza. Inizialmente la violenza è del privato, del singolo, è uno degli aspetti più eclatanti di una società turbata, come attualmente è della nostra società. E’ violenza contro sé ed è violenza privata contro le istituzioni e contro il vicino, contro la donna o contro il minore, è violenza fine a se stessa, senza motivazioni e senza limiti. Ma la violenza può trovare una sua legittimazione ed esaltarsi fino a proporsi come un ideale quando trova una giustificazione anche estrinseca alla quale poter far riferimento e con la quale diventare, per l’individuo singolo, motivo di comportamento e di rivendicazione di sé non più come singolo ma come espressione ed attuazione di un valore che lo sublima.
Il pericolo di questa seconda Repubblica italiana è proprio la violenza, violenza di massa, violenza che può allargarsi come macchia d’olio su una superficie piana. Essa può scaturire da rivendicazioni salariali, da torti o pseudo-torti, lamentati senza che nessuno presti attenzione, subiti per motivi occasionali come catastrofi naturali, scompensi meteorologici o paura di perdere ciò che si ha e ancor di più dal convincimento di essere defraudati di diritti sacrosanti. Risentimenti antichi, antipatie razziali, frustrazioni infantili possono divenire scatenanti e generare violenza.
Quando manca lo Stato, o meglio l’idea dello Stato e viene meno la volontà del cittadino di proiettarsi in esso per riconoscersi e per confortarsi nelle proprie scelte e azioni, la miseria individuale ha il sopravvento e le risposte irrazionali possono coagularsi intorno a delle motivazioni banali. Oggi il cittadino si sente solo e la struttura sociale non gli offre qualcosa in cui poter credere e alla quale potersi affidare, per cui il passaggio alle forme demagogiche è già in atto e il passo ulteriore non può essere cha la dittatura di uno o di pochi, ossia di coloro che opereranno esclusivamente a vantaggio proprio e a danno degli altri.
La seconda Repubblica è nata male, con tutti i difetti della prima dai quali non ha saputo liberarsi e della prima ha perduto quelle motivazioni che in qualche modo e per un certo tempo, senza dubbio significativo ed importante, hanno reso possibile l’incontro e lo scontro di forze che insieme hanno dato vita a un sistema politico. Quando tale sistema si è annullato nella corruzione e nell’esaurimento di problemi che la storia ha svuotato di significato, ha lasciato il posto ad un associazionismo e a un consociativismo di interessi particolari che non possono non esaurirsi rapidamente per il carattere totalmente contingente del loro essere.
Nuovi problemi mondiali o entità supernazionali che attualmente sono in fieri potranno dare nuove direttive politiche e con esse una nuova configurazione a quella seconda Repubblica italiana che deve ancora effettivamente nascere.
V.Pratola
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LA SECONDA REPUBBLICA
5a puntata
D’altra parte sindacati e partiti sono diventati larve di istituzioni rese evanescenti ed insignificanti e addirittura repellenti da tutti gli scandali che man mano sono venuti a conoscenza delle masse. Il concetto stesso di Stato non è più trasparente e sempre più è venuto coincidendo con chi non dà e impone soltanto taglieggiamenti fiscali. Squalificata la classe politica, anche se molti esponenti di tutti i vecchi partiti si sono in qualche modo rifatto il vestito esteriore di onestà formale, ma certamente non sostanziale, coloro i quali si presentano per amministrare lo Stato hanno immediatamente dimostrato la loro discendenza dal vecchio sistema e la stessa mentalità in cui ciò che determina le scelte politiche, al di là delle solite vuote promesse verbali e lo stesso modo di presentarsi alla ribalta, è l’atteggiamento rissoso di chi porta avanti i suoi particolari e personali interessi.
La risposta che ne deriva consiste nel disinteresse, nell’astensione, nel risentimento, in una sfiducia che rimbalza da uno all’altro e che gli stessi politici del momento accreditano denigrando le proposte degli avversari e riproponendosi senza convinzione, con controproposte che non sono alternative ma soltanto rifiuto di quelle degli altri.
Ormai non si può parlare di Repubblica, perché non c’è Stato nel senso di una struttura che abbia una sua fisionomia. Quelli che dovrebbero essere infatti i potentl dello Stato cercano di ritagliarsi spazi sempre più cospicui di influenza e di gestione entrando in conflitto e scaricando ogni responsabilità sugli altri. Diventa sempre più manifesto che sono i singoli, in quanto tali e non in quanto espressione delle istituzioni, che decidono le loro azioni di rivendicazione di onestà e di denuncia dei comportamenti altrui, lasciando trasparire interessi egoistici di parte, a dimostrazione che non si persegue un motivo ideale che possa valere per tutti, in quanto ognuno resta legato alla sua soggettiva ottica prospettica.
I vari raggruppamenti pseudo-politici non hanno un’anima e per questo, di volta in volta, sentono il bisogno di far riferimento ad un leader, ad un uomo che, necessariamente, non incarnando un ideale, non ha carisma e perde rapidamente la capacità di conservare compatte, intorno a sé, le forze che lo hanno sostenuto. Il calcolo dei benefici che si possono ottenere è legato a troppe contingenze perché possa essere il cemento che riesca a mantenere in vita le coalizioni e per questo riaffiorano continuamente contrasti, distinguo, precisazioni e proposte di modifica che evidenziano l’incertezza e l’indecisione che regna sovrana. Solo le ali estreme restano stabili perché il loro atteggiamento è quello di sempre: no a tutto e a tutti!
La gente sta a guardare sconcertata, incapace di sforzarsi di andare al di là dell’immediato presente, in attesa di eventi che spera vengano da qualche parte ma che invece appena annunciati scompaiono. Della prima Repubblica è rimasto solo lo sfacelo di quella struttura economica in cui ciascuno ha cercato di ottenere egoisticamente il massimo del profitto e in cui non c’è più neanche la voglia di combattere. La seconda Repubblica è sinonimo di stasi, di costernazione e rinuncia, con i patetici tentativi di tutte quelle persone che, provenendo dalla prima, continuano a rivendicare la loro verginità e il loro assoluto disinteresse personale per i privilegi che, guarda caso, giorno per giorno, appaiono essere appannaggio di tutti quelli che si erano trovati molto bene nel sistema.
La seconda Repubblica è l’espansione della società dei consumi, in cui non c’è posto che per il profitto e per il potere e dove non può esserci un programma politico nel vero senso della parola, ma soltanto dei programmai legati alle contingenze economiche. Di volta in volta possono costituirai delle maggioranze, indipendentemente dall’appartenenza a un gruppo politico o ad un altro, che durano il tempo di ottenere il proprio tornaconto.
D’altra parte l’unica cosa comune a tutti i movimenti, perché non si può parlare di partiti, è quella di rivendicare di essere al centro o di essere il centro del dispiegamento politico: tutti vogliono proporsi benpensanti, tutti vogliono essere moderati, tutti cioè, di fatto, si dischiarano soddisfatti della situazione in cui si trovano, al di là delle beghe e delle diatribe che lasciano il tempo che trovano. Nella storia il centro ha sempre avuto un ruolo di mediazione, nel senso che ha cercato di trovare un’applicazione pratica delle proposte di rinnovamento e di trasformazione della realtà, smussandola delle asperità troppo dirompenti, ma in qualche modo vivendole e facendole proprie. Ma quando tutto è centro, tutto è stasi, tutto resta immutabile, perché nel centro non c’è posto per i rivoluzionari ma soltanto per i moderati. E’ questo il portato della seconda Repubblica, senza idee, senza ideali, senza programmi e senza uomini che sappiano incarnare l’anima di un popolo.
La politica non si fa senza idee, in quanto soltanto un’idea può diventare rappresentativa di una unità nazionale o almeno può riuscire a far convergere gli interessi particolari dei singoli in una maggioranza motivata e quindi in grado di procedere non per provvedimenti particolari e contingenti ma per linee direttrici che abbiano una costante e che siano un punto di riferimento stabile.
Quando il singolo politico resta ancorato alla sua dimensione particolare, quando egli è uno tra tanti, quando non può distinguersi da interessi limitati, egli è soggetto a tutte le variazioni di umore e di situazione sociale in cui resta coinvolto; altrettanto uno Stato non è tale quando manca un cemento che, o per adesione o per opposizione, unifichi il popolo facendolo diventare nazione.
V.Pratola
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LA SECONDA REPUBBLICA”/”
4a puntata
Gli sviluppi tecnologici, l’evoluzione industriale, le conquiste salariali hanno favorito la diffusione del benessere economico e una sempre maggiore corsa al consumismo. Il tenore di vita, anche per le provvidenze sociali e gli interventi sempre più incidenti dello Stato, hanno incrementato il processo di livellamento e conseguentemente si è affievolito, fino ad annullarsi quasi completamente, il conflitto fra le classi.
Le rivendicazioni salariali, che precedentemente erano sostenute e unificate dal principio dell’equità sociale, sono diventate sempre più settoriali: ogni categoria ha cominciato a confrontarsi con le altre categorie e l’antagonista si è venuto man mano spersonalizzando nell’identificazione con lo Stato. La stessa politica dei Sindacati ha favorito questo sfaldamento del motivo trainante della lotta di classe, fino all’assurdo dello sciopero generale, ossia dello sciopero di tutti contro tutti, in cui tutti, ossia lo Stato, capitolavano facilmente e compiacentemente, accettando e giustificando tutte le richieste che continuavano a rincorrersi senza tregua. D’altra parte tale politica dei Sindacati era mera affermazione e richiesta di potere.
A parte le rivendicazioni contrattuali dei dipendenti dello Stato, infatti, anche quelle condotte contro i cosiddetti padroni e quindi contro il capitalismo borghese, comportava da parte dello Stato l’intervento mediatore, con conseguenti sgravi fiscali ed altri benefici a favore degli imprenditori che facevano le loro concessioni ai propri dipendenti, ottenendo, quale contropartita, gli interventi compensativi dello Stato.
Il ruolo dei partiti è venuto così scomparendo, in quanto la loro funzione è stata significativa fino a quando potevano proporre soluzioni diversificate dell’unico vero problema comune a tutti: la giustizia sociale. Questa, inizialmente, doveva essere realizzata salvaguardando interessi diversi e contrastanti e, soprattutto, salvaguardando le tensioni esistenti, senza giungere a stravolgimenti. Passato infatti il primo momento di euforia rivoluzionaria che avrebbe potuto portare a soluzioni diverse, il problema era quello di risolvere la nuova situazione attraverso compromessi che mantenessero il sistema politico e socio-economico. In tale clima la funzione dei partiti si è esplicata pienamente fino all’identificazione del loro complesso nello Stato.
Ma i tempi e le situazioni, come si è detto, sono cambiati.
Lo sfaldamento delle costruzioni del socialismo reale ha tolto, da una parte, l’ultima motivazione e ogni giustificazione ai miti rivoluzionari e dall’altra ha mostrato chiaramente l’inconsistenza della pretesa realizzazione di una giustizia sociale. Non è più necessario preoccuparsi di possibili rivoluzioni, di difendere o meglio combattere privilegi acquisiti, di organizzarsi ed impegnarsi per attuare trasformazioni sociali che abbiano una portata ed una rilevanza globale. Sono venute meno, in altri termini, le direttrici di comportamenti orientati a perseguire delle finalità trascendenti l’utile immediato del singolo e con esse le sollecitazioni interiori, le motivazioni comuni (o almeno tali da apparire unificanti gli interessi di più individui), che permettono un impegno di collaborazione e di aggregazione di essi.
Si parla di crisi del nostro tempo, di crisi di valori, di crisi delle coscienze, ma in effetti mancano delle motivazioni in cui i singoli possano vedere salvaguardati i propri interessi particolari e contemporaneamente possano non sentirsi egoisticamente chiusi in essi. E’ una forma psicologica di autogiustificazione per uscire dal proprio piccolo mondo soggettivo e sentirsi partecipi di un gruppo, di una comunità.
Montesquieu diceva che nell’ipotetico stato di natura l’uomo ha paura, è debole e prende la sua forza dal branco, nella società.
Il singolo, in effetti, tende a fuggire di fronte alle difficoltà e di fronte ai pericoli: diventa forte, diventa aggressivo quando si sente inserito in un gruppo, quando può prendere iniziative perché si sente protetto. E allora tutto è lecito, tutto è possibile, contro la legge, contro la morale, contro tutto e contro tutti. Abbiamo esempi e conferme di ciò da esperienze di tutti i giorni, dai gruppi di teppisti alle organizzazioni pseudo religiose, dalle associazioni di volontariato ai gruppuscoli rivoluzionari o pseudo tali.
V. Pratola